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Il 26 maggio scorso, Martina Carbonaro è stata uccisa ad Afragola, in Campania, dal fidanzato. Aveva solo 14 anni. La sua morte non è solo un fatto di cronaca nera: è lo specchio inquietante di un Paese in cui ancora oggi, nel 2025, molti giovani — troppi — crescono con un’idea distorta, tossica, pericolosa dell’amore. Amore come possesso, come gelosia, come dominio.

Non una di meno: i numeri del 2024 e dei primi mesi del 2025

Nel 2024, secondo l’Osservatorio “Non Una Di Meno”, sono stati 98 i femminicidi in Italia. In altre parole, 98 donne uccise da mariti, ex compagni, fidanzati. A questi si aggiungono altri 17 decessi collegati — suicidi e transcidio — che rendono il quadro ancora più tragico. Nei primi mesi del 2025, la tendenza purtroppo non si è invertita.

In Campania, nel 2024, le vittime sono state 4. Numeri che, se letti in proporzione, mettono in evidenza come la violenza di genere continui a colpire con forza devastante anche a livello regionale.

Ma dietro le statistiche ci sono nomi, volti, storie. C’è la vita spezzata di Giulia Tramontano, incinta, accoltellata a Milano dal compagno. Campana anche lei. C’è quella di donne giovanissime, ingannate da relazioni costruite sull’abuso e sulla manipolazione.

Istituzioni lente, donne ignorate

Maria ha 38 anni. Ha presentato 32 denunce contro il suo ex marito per violenza. Non una, ma trentadue. Nessuna risposta adeguata dallo Stato. Nessuna protezione reale.

È stata costretta a filmarsi in lacrime e a lanciare un appello pubblico disperato, sperando che almeno l’opinione pubblica o un deputato — come Francesco Emilio Borrelli — possa fare quello che le autorità competenti non hanno fatto: proteggerla.

Se una donna deve affidarsi ai social per salvarsi, significa che le istituzioni hanno fallito. La legge ha fallito. Il sistema ha fallito.

La sfida della Campania contro la violenza

Di fronte a questo scenario agghiacciante, la Regione Campania ha avviato un piano articolato su tre direttrici: una campagna istituzionale di informazione, l’attivazione di un tavolo di confronto permanente e la proposta di legge sull’educazione sentimentale nelle scuole.

Il progetto legislativo, intitolato “Misure per la promozione del benessere affettivo e dell’educazione sentimentale e relazionale dei minori e dei giovani”, è stato presentato dalla Commissione Politiche sociali del Consiglio regionale. L’obiettivo è introdurre nei percorsi scolastici una formazione che favorisca la cultura del rispetto, della parità di genere e della consapevolezza emotiva.

La necessità di educare gli uomini

L’iniziativa, promossa dalla Commissione Politiche sociali del Consiglio regionale, è senza dubbio un passo importante. Va riconosciuto. Ma non basta.

Basta girarci intorno. Basta parlare di “educazione affettiva” in termini vaghi e rassicuranti. È tempo di dire le cose con chiarezza: gli uomini devono essere educati. E rieducati. Maschi, figli, padri, adolescenti — tutti. Perché chi uccide non nasce mostro: è il prodotto di una cultura che lo ha cresciuto, giustificato, persino nutrito.

Una cultura che ha raccontato l’amore come possesso, gelosia, controllo. Che ha insegnato che “se non ti vuole, insisti”; che “la gelosia è segno che ci tiene”; che “una donna deve stare al suo posto”, e se non lo fa allora va punita.

Questa mentalità non si demolisce con qualche ora a scuola. Serve una rivoluzione culturale. Serve cominciare dalle famiglie, dai media, dalla politica, dalle leggi. Serve smettere di chiamare “raptus” quello che è un crimine sistemico, strutturale, figlio diretto del patriarcato.

L’imperativo, dunque, resta uno solo: fare in modo che ogni iniziativa sia strutturale, continua, valutata e potenziata. Perché l’indignazione non basta più. Perché finché ci sarà anche solo una Martina, una Giulia, una Maria da salvare, educare all’amore sarà un dovere collettivo.

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