L’ombra persistente della violenza
Ogni mattina, una donna si alza sperando di non essere la prossima.
Non è un pensiero passeggero, ma una silenziosa preghiera di sopravvivenza, in un Paese che elenca i nomi delle vittime come se fossero tappe di una marcia inarrestabile. Da Sara Campanella a Ilaria Sula, passando per Martina Carbonaro – fino alle storie di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin, dove il dolore delle famiglie si è fatto voce, testimonianza e impegno – il nostro presente si rivela per ciò che è: un mosaico di esistenze infrante troppo presto, di amori degenerati in possesso, di relazioni finite nel sangue. Mesi, stagioni e generazioni si susseguono, eppure la scia resta la stessa: un disegno tragico e persistente, “l’ennesimo femminicidio” figlio di un sistema culturale intriso di dominio, radicato in un patriarcato che resiste.
Di fronte a questa realtà, il dibattito si infiamma. E con esso, una domanda scomoda ritorna a bussare: che fine ha fatto quell’idea d’amore che ci avevano insegnato nelle favole?
“Buttate la chiave!”: il fragile inganno della pena esemplare
La risposta legislativa a questa ondata di violenza è stata, come spesso accade, l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Il recente disegno di legge che introduce il “delitto di femminicidio” (art. 577-bis c.p.) e rafforza il “codice rosso” ne è un esempio lampante. L’intento è nobile: riconoscere la specificità di questi crimini, spesso motivati da un distorto senso di possesso e controllo, e garantire una risposta più severa da parte dello Stato. Tuttavia, è lecito interrogarsi sull’efficacia di un approccio che si affida quasi esclusivamente alla repressione.
Come sottolineato da autorevole dottrina nel nostro panorama giuridico di riferimento, l’introduzione di un reato specifico di femminicidio, pur avendo un forte valore simbolico, rischia di essere una mera operazione propagandistica se non accompagnata da un cambiamento culturale profondo. Il nostro codice penale già prevede pene severissime per l’omicidio, e l’aggravante della relazione affettiva o della premeditazione porta già a condanne esemplari. La questione non è tanto la mancanza di strumenti punitivi, quanto la persistenza di una mentalità che genera la violenza.
Il diritto penale, per sua natura, interviene a posteriori, quando il fatto è già compiuto, quando la vita è già stata spenta.
È uno strumento necessario per sanzionare e riaffermare i valori della società, ma non può essere l’unica risposta a un “male sistemico” che si nutre di disuguaglianze, stereotipi di genere e una cultura del possesso che confonde l’amore con il controllo. Le pene severe, da sole, non bastano a estirpare le radici di un problema così radicato. Anzi, in alcuni casi, una sovraesposizione mediatica di questi crimini, unita a un’enfasi esclusiva sulla punizione, potrebbe persino innescare un pericoloso fenomeno di emulazione o, peggio, rafforzare l’idea che la violenza sia una risposta accettabile a dinamiche relazionali complesse. Affidargli il ruolo di baluardo unico contro la violenza di genere è, invero, eticamente miope. Non si estirpa una cultura malata con l’inasprimento delle pene.
Si può, semmai, tentare di arginarla.
Il dato drammatico è che oggi si assiste anche alla spettacolarizzazione del lutto e alla retorica del “mostro”. Ma i mostri non esistono: esistono uomini.
Esseri umani cresciuti in un mondo che ancora confonde l’amore con la dipendenza, la virilità con il comando e l’intimità con il potere.
E quando, nelle narrazioni tossiche, si insinua l’idea che “qualcosa, in fondo, lei avrà fatto”, che “non si era accorta dei segnali”, che “non ha denunciato abbastanza presto”, allora il problema si mostra in tutta la sua pericolosa profondità: la vittima viene colpevolizzata, mentre l’impianto sociale che l’ha condannata, viene assolto.
Ciò che oggi chiamiamo con prudenza “femminicidio” è, nella sua sostanza, un crimine di potere.
È l’annientamento dell’autodeterminazione femminile da parte di un soggetto – partner, ex, padre, fratello – che percepisce la libertà della donna come una minaccia alla propria identità virilmente distorta.
È il prodotto finale di un sistema patriarcale che ha fallito non solo nella tutela, ma nella formazione.
L’Educazione: La Vera Chiave di Volta contro il Femminicidio
Il femminicidio non è un’emergenza, ma una piaga sociale che richiede un approccio olistico e multidisciplinare. Ogni donna uccisa per mano di un uomo che sosteneva di amarla, rappresenta il sintomo di una patologia sociale profonda, sistemica, strutturalmente radicata nei meccanismi di potere, dove il controllo e sopraffazione, hanno la meglio. Non è amore: è dominio.
E non basta punire per prevenire.
Ed è proprio qui, che entra in gioco l’educazione. Non un’educazione formale e sterile, ma un processo continuo e capillare che inizi fin dalla più tenera età e coinvolga ogni strato sociale. Occorre investire nella costruzione di una cultura dell’affetto, del rispetto reciproco, della gentilezza e – soprattutto – del consenso. È fondamentale educare le nuove generazioni, e non solo loro, a comprendere che l’amore non coincide con il possesso, che la libertà dell’altro è inviolabile, e che la differenza è un valore, non una minaccia.
Questo significa decostruire gli stereotipi di genere che ancora oggi permeano la società, promuovere un’autentica parità e incoraggiare una mascolinità libera da modelli tossici e violenti.
Solo così potremo realmente scardinare il sistema che legittima, normalizza e – troppo spesso – giustifica l’annientamento dell’altro in nome di un amore che di amore non ha nulla.
Il Governo, insieme a tutte le Istituzioni, ha il dovere di operare in sinergia con esperti, psicologi, sociologi, educatori e realtà associative per progettare e attuare politiche culturali ed educative strutturate, capaci di intervenire nel profondo.
Occorrono programmi formativi efficaci, campagne di sensibilizzazione mirate, percorsi scolastici integrati e spazi di confronto autentico.
Solo un’azione sistemica, coordinata e continuativa può provare a incidere su una crisi valoriale che si rivela sempre più lacerante.
“Ciò che resta dell’amore” – La Famiglia come protagonista
La famiglia è il primo tribunale dell’amore, il primo spazio in cui si apprende la libertà dell’altro.
È dentro le mura domestiche che si forma – o si disgrega – la coscienza del rispetto, l’alfabeto delle emozioni, la grammatica del consenso. Non è mai troppo presto per insegnare ai bambini, -indipendentemente dal genere- , che nessuno appartiene a nessuno. Che la rabbia non è un linguaggio d’amore, che il dissenso non è un affronto, che l’altro – con i suoi limiti e la sua libertà – non va conquistato, ma accolto.
Alle famiglie non è richiesto l’eroismo della paura, ma la presenza attiva e partecipe, la capacità di osservare senza invadere, di ascoltare senza giudicare e di educare senza imporre.
Serve una genitorialità che sappia farsi alleata dell’affettività sana, che sappia disinnescare quelle differenze che, molto spesso, rischiano di divenire gabbie: il maschio che non può piangere, la femmina che deve sempre comprendere.
La forza delle radici culturali si spezza – o si tramanda – nel silenzio di queste frasi.
Per questo il lavoro contro la violenza deve cominciare prima della violenza, in quella zona grigia che ancora non è reato, ma è già disuguaglianza. Le famiglie, in dialogo con scuole, istituzioni e società civile, sono il primo argine contro l’educazione alla prevaricazione.
Perché nessuna legge può colmare ciò che l’amore ha disatteso.
Non spettatori, ma custodi del cambiamento
Non possiamo più permetterci di raccontare la violenza con lo stesso stupore con cui si guarda un temporale. Non è pioggia che cade all’improvviso, ma tempesta annunciata, generata da secoli di silenzi, di ruoli imposti, di affetti deformati in controllo.
Abbiamo il dovere – giuridico, etico, umano – di trasformare la commozione in consapevolezza, la rabbia in azione, la paura in coraggio educativo.
Ogni cittadino, ogni istituzione, ogni scuola, ogni famiglia è chiamata a partecipare a un’opera di risanamento culturale che non può più attendere.
La violenza di genere non si estingue solo con le manette: si disinnesca prima, nei gesti, nelle parole, nei modelli. E noi possiamo esserne artigiani e custodi, scegliendo ogni giorno di coltivare il rispetto, insegnare la gentilezza, proteggere la libertà altrui come fosse la nostra.
Che la prossima storia che racconteremo non sia l’ennesimo nome inciso su un altare di lutto, ma la storia di un cambiamento possibile, radicato nelle coscienze prima che nei codici.
Perché ognuno si salvi, sì, ma non più da solo.
©Elisabetta Costa.
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