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E’ la sentenza shock della Corte d’Appello di Torino

Nell’immaginario collettivo la violenza sessuale è relegata al concetto di prevaricazione estremamente violenta finalizzata alla costrizione ad un rapporto sessuale, tale per cui lascia la vittima gravemente ferita. In realtà, però, non è così.

Questa narrazione romanzata della violenza, infatti, mette in secondo piano il concetto fondamentale che regola le relazioni, soprattutto di tipo sessuale, ovvero quello di consenso.

Anche la nostra legge, riconoscendo i diversi volti di questo crimine divide le violenze sessuali in:

  • costrittive, quelle attuate con violenza o minaccia
  • induttive, quelle attuate abusando di condizioni di inferiorità della vittima o traendola in inganno.

Secondo la Corte di Cassazione, nella violenza sessuale l’assenza di consenso (in quanto requisito implicito della fattispecie) si deve presumere qualora non sussistano indici chiari e univoci che dimostrano il consenso a compiere o a subire atti sessuali, seppur tacito, ma in ogni caso inequivoco.

Tuttavia, non sempre tali principi giurisprudenziali vengono applicati correttamente.

Irragionevole, infatti, appare la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino su un caso di stupro.

I FATTI

2019, Torino: una ragazza accetta l’invito ad incontrarsi con un ragazzo con il quale, in precedenza, aveva scambiato qualche bacio. Si intrattengono in un locale di via Garibaldi, vuole spiegargli che per lei finisce lì, non vuole andare oltre o iniziare una storia.

A ribadirlo in aula l’avvocato di lei, Elisa Civallero, che ha dichiarato come la sua assistita sia stata molto chiara nell’esporre i fatti: “Ci teneva a chiarire con l’amico che il bacio scambiato al loro precedente incontro era da intendersi come un fatto episodico, in quando lei non aveva alcuna intenzione di iniziare una relazione sentimentale”. Il ragazzo però non si sarebbe arreso, dicendosi disponibile a iniziare una relazione quando lei avesse voluto.

Quella sera, la ragazza deve andare in bagno e si fa accompagnare da lui, che conosceva bene il posto perché ci aveva lavorato. Lascia inavvertitamente la porta socchiusa. Lui entra e la stupra.

L’APPELLO

Scattata la denuncia, in primo grado l’uomo viene condannato. Ricorre in appello e viene assolto.

Secondo i giudici della Corte:

“L’unico dato indicativo del presunto abuso potrebbe essere considerato la cerniera dei pantaloni rotta, ma l’uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura.”.

Dunque, una cerniera rotta non è la prova di una violenza ma solo che il jeans fosse di pessima qualità.

Negli atti si legge ancora che: “Al momento dei fatti la ragazza era alterata per un uso smodato di alcol […] è quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé quando richiese di accedere al bagno, provocò l’avvicinamento del giovane che invero la stava attendendo dietro la porta, custodendo la sua borsetta: non solo, ma si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire”. Un vero e proprio “invito ad osare“.

Sentenza che grida ingiustizia comunque la si legga, che alimenta la cultura dello stupro, che criminalizza le donne per come si vestono e per come si comportano, giustificando atti di abuso come “provocati”, “indotti” per qualcosa di fatto o detto.

La sentenza di Torino è pericolosissima perché impaurisce le donne, già preoccupate di essere colpevolizzate per la violenza subita, spingendo le vittime a chiedersi: “È stata colpa mia?”.

E sempre secondo la Corte, il presunto stupratore era parso “gentile” mostrando un “atteggiamento molto lontano da quello dello stupratore”. Come se l’immagine dello stupratore medio fosse quello di un mostro sconosciuto. In realtà, secondo i dati ISTAT, in Italia tra le donne che hanno subito violenze sessuali il 13,6% era da un partner.

La sentenza è stata impugnata in Cassazione dal sostituto procuratore generale Nicoletta Quaglino, la quale si è espressa in merito: “Illogica appare la sentenza quando esclude la sussistenza del dissenso, sia perché tale dissenso risulta manifestato con parole e gesti, sia perché nessun comportamento precedente può aver indotto l’agente in errore sulla eventuale sussistenza di un presunto consenso. Dunque non risulta provata la mancanza di dissenso da parte delle persona offesa, anzi risulta evidente la sussistenza di un dissenso manifesto”.

Ma, al di là del procedimento giudiziario che proseguirà, fortunatamente si è già scatenata l’indignazione, la rabbia e il disgusto dell’opinione pubblica.

Questo caso richiama l’attenzione sulla necessità di una riforma legislativa che incentri la fattispecie di violenza sessuale non solo sul concetto di “costringimento” spesso fuorviante ma sulla mancanza di consenso della vittima. Per la rilevanza penale, ricordiamo che anche dal punto di vista psicologico dell’uomo è sufficiente che lo stesso abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte della donna al compimento degli atti sessuali.

Ci si domanda che impatto può avere tale appello sulle donne che hanno subito una violenza.

Se perfino in un tribunale viene depennato uno stupro come “un’occasione” propizia e si colpevolizza la vittima, come si trova ancora la forza di denunciare?

Chiara Vitone

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