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I 365 giorni che canonicamente compongono un anno solare sono sempre più costellati da varie ricorrenze (giornate nazionali ed internazionali) che in genere hanno lo scopo di sensibilizzare in merito ad una determinata tematica. Spesso, però, il richiamo con annesso rumore che si fa in una specifica giornata si esaurisce nell’arco di 24 ore o poco più. Nel caso della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ricorsa lo scorso 25 novembre, il prolungamento della mobilitazione di piazza potrebbe essere leggermente maggiore, soprattutto dopo l’ultimo caso di femminicidio.

L’uccisione brutale di Giulia Cecchettin, 22enne che come tante altre ragazze ha visto spezzarsi i propri sogni, la propria vita, per il volere di una mente lucidamente malata, ha in effetti aumentato le proporzioni di un fardello che ci portiamo appresso da troppo tempo. Oltre il clamore mediatico, oltre l’indignazione, resta la grande piaga. Restano i numeri, gli stessi che ci dicono che da tre anni a questa parte i casi di oltraggio al genere femminile e più in generale all’essenza stessa dell’umanità sono costantemente in tripla cifra.

Non è, come dirà qualcuno, un problema solo italiano (tanto per mettersi la coscienza a posto). Evidente è, al contempo, il primato del nostro Paese in questa triste classifica. Altrettanto evidente è inoltre che i vari governi negli anni hanno girato attorno alla reale soluzione e che chi è chiamato ora a prendere le opportune decisioni sostanzialmente sta seguendo lo stesso copione a metà tra l’ipocrisia e l’indifferenza, nascondendosi dietro vuoti decreti che resteranno solo su carta.

La giustizia, spesso, latita. E qui il riferimento non è solo all’organo che emette sentenze in aule di tribunali. No. L’attenzione è rivolta a diversi casi ancora aperti, dove da un lato troviamo l’opinione pubblica che si immedesima nel dolore dei familiari delle vittime e si unisce a questi in una battaglia solitaria e dall’altro la scelleratezza di chi dovrebbe “semplicemente” svelare la verità.

Il servizio pubblico in queste settimane ha riportato non a caso alla luce due casi. Il primo è quello di Elisa Claps, la 16enne potentina scomparsa nel settembre del 1993 nella chiesa della Santissima Trinità e ritrovata, martoriata, 17 anni più tardi in quello stesso luogo che di recente ha recuperato per ordine del pontefice la propria sacralità. Nella casa di Dio, palesemente assente per un giorno, Dio ha fatto ritorno come se nulla fosse successo, peraltro riconoscendo un peso morale e spirituale a quello stesso parroco che coprì l’omicidio. Oltre al danno la beffa, si dirà. “Almeno” il responsabile del crimine è stato condannato all’ergastolo, da scontare in Inghilterra dove gli uomini di giustizia certamente hanno dimostrato di saper svolgere il proprio dovere senza condizionamento alcuno. Se il Restivo non avesse compiuto un altro crimine Oltremanica, molto probabilmente, staremmo qui a raccontare tutt’altra storia.

Il secondo caso, invece, è portatore di speranza, la stessa che nel primo caso in molti hanno legittimamente perso. Si parla nella fattispecie dello stupro di massa avvenuto al Circeo nel settembre del 1975. Due ragazze, Rosaria Lopez (di 19 anni) e Donatella Colasanti (di 17) furono rinchiuse in una lussuosa villa di campagna da tre criminali, abusate e massacrate di botte. La prima ci rimise la vita, la seconda si salvò solo perché si finse morta ed ebbe poi la forza di affrontare un processo dimostratosi equo (strano a dirsi) che per la prima volta riconobbe un caso di violenza sulle donne esattamente per quello che è, senza astrusi e fuorvianti richiami alla morale.

Ebbene, queste due storie, unite alle tante altre che possono essere oggi raccontate con un velo d’ottimismo circa le reali intenzioni di combattere per un reale cambiamento, faranno ancora a lungo il paio alle vicende irrisolte, quelle senza colpevoli, quelle del “tanto sicuramente lei ci stava” o quelle del “in fondo se l’è cercata”.

Espressioni come queste sono la prova evidente di cosa non funziona nella nostra società, rimasta ancorata ad un’idea sbagliata del rapporto tra i due sessi. Si parla tanto, a tal proposito, di un “problema culturale”. Niente di più vero. Il punto è che una volta trovata la causa di un problema poi bisogna anche risolverlo nel modo giusto.

Appellarsi quindi alle scuole, al loro ruolo educativo, senza includere nel discorso le famiglie e mettere altresì queste ultime al primo posto nel cammino di crescita di un ragazzo che poi diventerà uomo, è la solita cantilena stonata sentita troppe volte ed oggettivamente inutile.

Lungi dall’atteggiarmi a tuttologo (ne abbiamo già troppi e fanno abbastanza danni), obiettivamente se il padre e la madre sono stati creati per crescere un figlio e non solo per metterlo al mondo un motivo ci sarà. Di questo bisognerebbe parlare il 25 novembre e per altri 364 giorni, mettendo da parte il “fare rumore” che spesso si esaurisce nel vuoto chiasso da strada, accantonando gli altrettanto inutili slogan più o meno racchiusi nella frase “mai più” e tornare, piuttosto, a casa per instaurare un dialogo.

Solo così la speranza persa potrà trasformarsi nella certezza del tanto agognato mondo migliore.

Felice Marcantonio

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