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Di certe tematiche sociali se ne parla poco. 

La quasi inaccessibilità di determinati punti ha portato ad una sorta di indisturbata ipocrisia. In merito a ciò, il seguente argomento è stato scelto per dare voce a tutti coloro letteralmente stanchi di tanto silenzio.

Dopo due anni di pandemia per molti è stato quasi fisiologico interrogarsi e cercare generalmente delle buone ragioni. Forse perché la più totale vulnerabilità ha provocato in una sorta di coinvolgimento nelle emozioni, nei dolori o nelle gioie, anche se non direttamente propri. Nonostante ciò, la difficolta nel trattare certe problematiche è veritiera, ma oggi abbiamo un bagaglio d’esperienza e d’informazione non indifferente, il quale deve essere motore di una sensibilizzazione globale.

“Come è successo?”, “aveva problemi psichici?”, “era sotto terapia?”, anni fa chiunque avrebbe posto queste domande. Classiche domande. 

Oggi regna una rabbia mortificante

L’ospedale universitario di Sant’Andrea di Roma definisce il suicidio “un gesto estremo di autolesionismo che una persona in condizioni di grave disagio sociale o malessere psichico, depressione, disturbi mentali, procura volontariamente a se stesso. Se lo stato alterato del paziente viene colto in tempo, può essere risolto, anche se non sempre è facile individuarne le cause precise. 

In genere sembra verificarsi più negli uomini e negli anziani e non è quasi mai una decisione improvvisa, ma frutto di lunghi e tortuosi ragionamenti, che diventano una risposta a situazioni personali di vita. Fortunatamente le morti per suicidio, sono solo una minima parte rispetto a chi pensa ad esso o ne compie un tentativo.” 

Dati che parlano

Secondo alcuni dati, però, durante i due anni di pandemia è avvenuto un incremento degli adolescenti suicidi del ben 75%. 

Oltre l’80% dei tentativi di suicido è messo in atto da bambine e ragazze; l’età media di chi tenta di togliersi la vita è di circa 15 anni, il più giovane ha 9 anni. 

Da: Fondazionebrf

E’ d’obbligo sottolineare e considerare numerose concause: la predisposizione genetica, fattori ambientali come le relazioni familiari,  rapporti nel contesto scolastico o ad altri fattori stressanti come traumi o l’abuso di sostanze stupefacenti.

Eppure, l’incremento degli ultimi anni spaventa e non poco. La sfera dei soggetti “fragili” si è estesa più di quanto si pensava;  basterebbe riportare tutti quei fatti di cronaca, tra cui numerosissimi casi di studenti suicidi. Nella maggior parte, si tratta di soggetti privi disturbo mentale diagnosticato o problematiche di altro genere.  Inoltre, le statistiche sintetizzate da Suicide Prevention Resource Center e Report of Secretary’s Task Force on Youth Suicide  riportano che i giovani omosessuali hanno un più alto tasso di tentativo di suicidio di quanto non sia gli eterosessuali. Che sorpresa. In più, risulta difficile conoscere il tasso di suicidi esatto tra i giovani LGBT+ perché la sessualità e la minoranza di genere rimangono spesso nascoste. Anche qui, per la maggior parte dei casi, si tratta di ragazzi che conducono una vita normale, che vanno a scuola, escono e coltivano hobbies. 

Da non sottovalutare i casi suicidi dovuto al fattore economico, anche in tal caso è possibile notare un incremento negli ultimi anni.

E’ possibile dedurre, quindi, che nel 2022 c’è stato un incremento di casi di suicidio dovuto a cause che possono essere definite più che “estrinseche”, “esterne”. E’ questa la vera spiegazione di quest’incremento numerico. “Era già malato”, “ma era predisposto”. Fattori come quelli menzionati ci sono sempre stati.  Potevano essere ritenute ragioni sufficienti qualora il fenomeno risultasse non alterato rispetto al passato, ma i dati non possono non evidenziare che attualmente è sorto un vero e proprio problema a livello sociale.

Da: Rainews.it

Così, un gruppo di ragazzi nel 2017, da una semplice assemblea scolastica, hanno fondato “StayAleeve” E’ la prima associazione non-profit in Italia gestita interamente da ragazze e ragazzi. Lo scopo è quello di incoraggiare, informare, lottare, investire sulla sensibilizzazione e contro depressione, autolesionismo e suicidio con incontri e eventi. Quanto l’esterno può fare la differenza?

Il problema è nel contorno, quello di una società che demonizza ogni forma di fallimento, anche il più banale. Probabilmente l’unico insegnamento post-pandemia è del tutto ignorato.

E’ consueto l’encomio di chi riesce a raggiungere il successo prima del tempo, così come lo è ombreggiare chi incontra nel tragitto qualsiasi tipo di difficolta, rallentando. E’ usuale etichettare, come se fosse un gioco, il vincente ed il perdente.  

E’ difficile anche risollevarsi da quell’etichetta.

Ed è conseguenza un atteggiamento di distacco nei confronti di uno stato emotivo altrui, finché non diventa nostro. Lo shock nel momento della disgrazia affligge, ma non marchia se dimenticata un attimo dopo.

A cosa serve tanto dolore se non è concretizzato? Se non diventa motivo di svolta? Credere realmente che il fine non giustifica i mezzi significa tolleranza verso le vite degli altri. Che, anche se lo volessimo, non potremmo essere solo dei macchinari. Che il traguardo non è una tempistica e che i bordi possono essere strappati in qualsiasi direzione. Che ci sono sfumature. Che rallentare non è fallire e che il fallimento non rappresenta la fine. Che occorre prenderci cura delle parole, delle richieste. 

Perché quella dell’attualità è una linea disegnata da chi pensa che “chi si ferma è perduto” tanto da spingere anche chi sta silenziosamente chiedendo aiuto, come se in un torrente, verso un limite troppo grande, annegando e perdendo anche l’ultimo respiro. 

Claudia Coccia

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