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“Vurria ‘na canzunedda rispittusa, chiancissi la culonna a la me casa;

la megghiu stidda chi rideva in celu, anima senza cappottu e senza velu;

la megghiu stidda di li Serafini…povira Barunissa di Carini!”

(Canto Popolare, XVI secolo)

Ne avremo forse sentito parlare, e forse avremo avuto modo di vedere lo sceneggiato del ’75 a puntate con la colonna sonora cantata dal grande Gigi Proietti.

Quella della Baronessa di Carini è senza dubbio una delle storie più affascinanti dell’immaginario popolare, circondata com’è da un’aura di mistero, quasi a confine con la leggenda. La baronessa, il cui vero nome era Laura Lanza di Trabia, era la primogenita di una delle famiglie più ricche e potenti nella Sicilia del Cinquecento, quando l’isola apparteneva ai domini spagnoli, e che a soli quattordici anni era stata promessa in sposa a don Vincenzo La Grua-Talamanca, anch’egli appartenente a un nobile casato. Vittima delle circostanze storiche nonchè di un matrimonio combinato, Laura intrecciò una lunga relazione con Ludovico Vernagallo, cugino del marito e di rango inferiore; scoperti da don Cesare, padre di lei, i due amanti vennero uccisi da lui stesso, o comunque dietro suo ordine. Con alta probabilità è sepolta nella chiesa di Santa Cita, a Palermo, in un sarcofago anonimo situato nella cripta dei Lanza, e dopo secoli di omertà e misteri, finalmente, riposa in pace e completamente riabilitata. Per fortuna i tempi sono cambiati!

La vicenda della Baronessa, tuttavia, rientra in un reato specifico: il delitto d’onore.

Questo sarebbe, stando all’articolo 457 del Codice Penale, un reato commesso per vendicare l’onorabilità del proprio nome o della propria famiglia, caratterizzato da una motivazione essenzialmente soggettiva di chi lo commette, volta a salvaguardare una particolare forma di onore o di reputazione, con particolare riferimento a taluni ambiti relazionali come ad esempio i rapporti sessuali, matrimoniali o comunque di famiglia. In parole molto meno tecniche, questa sarebbe una sorte di “autorizzazione velata” a commettere un omicidio, di frequente un femminicidio (ma non solo) da parte della società e della magistratura tramite cui essa si esprime, ed in effetti la pena per questo tipo di reato è esercitata in modo alquanto blando, in quanto una macchia sul proprio nome è persino più grave del togliere la vita a qualcuno. Addirittura, nel Codice veniva citato e, di conseguenza, punito, solo l’adulterio della moglie e non quello del marito, o una situazione di concubinato dello stesso. Fortunatamente per noi, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate il 5 agosto 1981 e, seppur molto tardi, anche noi siamo usciti da secoli di silenzio e dormienza della giustizia.

Strettamente connesso al delitto d’onore era la pratica del matrimonio riparatore, contratto tra due persone, una delle quali, nella maggior parte dei casi una minorenne, subiva una violenza tale da comprometterne la “purezza”, e che in tal caso non sarebbe stata più la candidata ideale per un buon matrimonio, cosa in alcune società di stampo patriarcale vige ancora. Questa pratica era applicata nel caso in cui lo stupratore avesse intenzione di sfuggire alla giustizia, pagando le spese del matrimonio e senza pretendere alcuna dote. E ciò implicava che la vittima non fosse altro che un oggetto, uno strumento per pacificare i contrasti tra le varie famiglie e migliorare i rapporti, senza che la vittima stessa potesse esprimersi e dire la sua a riguardo, dato che rifiutarsi era percepito come sconveniente. E sempre in Sicilia, una donna, non di nobili origini come la Baronessa, chiamata Franca Viola, fu la prima a opporsi al matrimonio riparatore, la prima ad affermare senza esitazioni di non essere proprietà di nessuno nè tantomeno di poter amare qualcuno che non rispettava.

Questi sono racconti di due vite esemplari, due donne che, in base ai tempi e alle circostanze, hanno saputo opporsi ad uno status quo in cui non le veniva permesso di poter seguire le loro inclinazioni o desideri, ha scelto chi amare nonostante il divieto della società, affrontandone le conseguenze e che ha reso noto a tutti uno dei lati oscuri del nostro Meridione.

E, ci dispiace dirlo, ancora oggi si legge e si sente parlare di tante tragedie in ambito familiare o semplici situazioni di fidanzamento, di persecuzioni dovute alla mancata accettazione dell’altrui libero arbitrio, e di vittime che non hanno il coraggio di ribellarsi a condizioni opprimenti perchè poi cosa potrebbero dire le altre persone di me? Non che in altre parti del mondo o d’Italia ciò non avvenga, ma soprattutto qui nel Mezzogiorno assistiamo ancora ad atteggiamenti che intendono privare qualcuno della propria libertà prevalentemente in modo psicologico prima ancora che fisico, in nome di una certa morale, atteggiamenti che, nonostante delitto d’onore e matrimonio riparatore siano stati abrogati, ne sono il frutto e la conseguenza, e questo non può essere una legge a cambiarlo, può farlo il tempo e un po’ di buona volontà.

Parlare semplicemente di femminicidio sarebbe stato abbastanza ripetitivo, direi anche stucchevole, onde per cui abbiamo preferito parlare di due storie, due vite diverse che, tuttavia, sono risaltate ad onor di cronaca, due storie che fanno parte di una storia che percepiamo come nostra: quella del Sud.

Dario Del Viscio

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