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10 ottobre: giornata mondiale della salute mentale

Un po’ di storia

Con Giolitti nel 1904 entra in vigore la legge sulle disposizioni sui manicomi e sugli alienati, custodia e cura. Essa ufficializzava la figura dello psichiatra ed il potere sovrano del direttore del manicomio. Stipulava il regolamento per il ricovero “coatto” e le dimissioni dei pazienti, sanciva il legame tra malattia mentale e pericolosità.

Durante il fascismo, con il codice Rocco, si introduce l’obbligo di iscrizione degli internati nel casellario giudiziario. Inoltre, essendo vista di causa prettamente organica, la malattia mentale veniva combattuta con le terapie di shock. Era lo shock dell’organismo che poteva portare ad una guarigione, provocato da febbre alta come nel caso della malarioterapia o indotto da iniezioni di insulina. 

Poi arrivarono gli psicofarmaci, nel 1952. Ma quella che molti psichiatri accoglievano come una grande risorsa terapeutica, sarebbe poi diventata una “camicia di forza chimica”.

Dal 1968 iniziarono le svolte, iniziando con la Legge Mariotti che introduceva il ricovero volontario, cercando quindi, di equiparare l’ospedale psichiatrico a quello generico. Fu la prima volta che il manicomio veniva pubblicamente paragonato ad un lager.

Era il 1978 quando è entrata in vigore la Legge Basaglia. Tale norma comportava l’abolizione dei manicomi, eliminando la pericolosità come ragione della cura ed introduceva il Trattamento sanitario obbligatorio. Restituita alle persone con disturbi mentali il reddito di cittadinanza. In aggiunta, istituiva gli Ospedali psichiatrici giudiziari a sostituzione dei manicomi criminali. 

Alcune testimonianze

Prima di allora, il buio. 

Tutti coloro che soffrivano di una certa “-μανία” e quindi “pazzia”, venivano portati in quei posti; bastava talmente poco. Sono tante le testimonianze da cui potremmo trarre notizie concrete.

Mi sono focalizzata sull’intervista di una donna, chiamata Pina, la quale a cinque anni fu ricoverata al Santa Maria della Pietà a Roma. Aveva cinque anni quando vi entrò, perché non esistevano limiti di età, era necessario un semplice certificato medico, il quale doveva dichiarare il bambino\a pericoloso\a per sé e per gli altri. 

La signora in questione dice:“Mi hanno legata mani e piedi. Sono stati 30 anni di carcere”.  Quasi ironicamente prosegue:“sai che ti dico, non potevamo fare neanche l’amore”.  E quasi fieramente aggiunge:“Ho lavorato lì dentro, lì dentro stesso, quando non ero legata, lavoravo”.

Spesso, nei reparti femminili venivano rinchiuse donne che non riuscivano ad adeguarsi al ruolo di moglie e madre imposto dalla società. Le diagnosi erano sempre le stesse, potevi essere semplicemente una ninfomane o una melanconica per essere sottoposta a cicli di elettroshock. Era sufficiente.

Nel primo caso eri definita una donna priva del dominio pudore, disponibile a qualsiasi tipo di rapporto sessuale e sprovvista di qualsiasi affettività; nel secondo caso, invece, soffrivi di una alterazione patologica del tono dell’umore, nel senso di una immotivata tristezza talvolta accompagnata da ansia. Beh si, era semplice entrare in manicomio e difficile uscirne. 

La negazione dell’io

L’ulteriore danno psicologico provocato dalla vita in manicomio potrebbe essere racchiuso nella seguente citazione di Basaglia: 

Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (…); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costituito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balìa degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tener conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.

Con negazione della propria identità l’uomo si spoglia di tutto il suo essere, restando niente, nemmeno corpo. Ricorda i lager. 

E’ paradossale come questi principi venissero condivisi e come una realtà così crudele ma anche evidente all’occhio umano abbia dovuto aspettare così tanto tempo per essere cambiata.  Il processo di sensibilizzazione è stato molto lento, anche dopo le Legge Basaglia.  Basti pensare che molti manicomi vennero realmente chiusi vent’anni dopo il 1978, come il manicomio sopra citato.  Nonostante ciò, i ricordi nelle menti di quei pazienti, rimarranno indelebili.

Oggi le comunità psichiatriche

Oggi, fortunatamente, è apparso ancor di più, grazie alle evidenze scientifiche, che la salute è il prodotto di una interazione convergente  di tutti più sistemi : il sociale, il sanitario, l’istruzione, la ricerca, la giustizia, etc. Si è arrivati alla conclusione che la salute fisica e mentale si proteggono con il mantenimento, nel tempo, di tutte le condizioni che tutelano il benessere, che promuovono la partecipazione attiva dei cittadini, riconoscendo i diritti dei più fragili. La Legge Basaglia attraverso la chiusura dei manicomi, aprì un varco definitivo ad alcune sacrosante verità che la scienza, la clinica, le evidenze, più che le scienze sociali ed il Diritto, hanno confermato essere giuste. 

La chiusura dei manicomi portò all’apertura delle cosiddette comunità psichiatriche. Si tratta di strutture protette, una sorta di grandi residenze destinata ad accogliere soggetti con patologie di natura psichiatrica che necessitano di interventi terapeutici-riabilitativi. Per accedervi, naturalmente, bisogna fornire una domanda di ammissione redatta dello psichiatra di riferimento. Gli ospiti della comunità sono controllati e supportati da un’equipe di medici, psichiatri, psicologi, educatori professionali ed infermieri. Per il paziente che accede viene ideato un percorso terapeutico ad hoc con degli obiettivi da raggiungere in un determinato arco di tempo il paziente prende velocemente coscienza della malattia e delle proprie capacità. Questo nasce in risposta estremamente contraria a quanto avveniva nei manicomi: ora gli obiettivi sono la restituzione al paziente della sua soggettività e la riappropriazione della sua capacità operativa e riproduttiva.

Una delle terapie riabilitative realizzate risulta essere proprio l’Arteterapia, rivolta all’area cognitiva- espressiva. E’ così che i laboratori diventano spazio centrale di un gruppo utenti creativi, luogo di autostima, serenità, accettazione. L’arte riserva una natura strumentale, capace di estendere le capacità umane al di là della naturale dotazione, compensando quindi le debolezze mentali e fragilità psicologiche. Dietro le immagini c’è una struttura psicologica e formale, uno stile unico che appartiene solo al singolo soggetto. Ed è qui che si ha la ripresa e la manifestazione del proprio io. 

Lo disse anche Alda Merini: 

“la pazzia è solo un’altra forma di normalità che può generare poesia, quella degli spiriti tempestosi, avvolti dal vortice del loro genio creativo, che attinge linfa vitale del delirio”.

Mostra di quadri realizzati durante il laboratorio creativo degli ospiti della comunità psichiatrica terapeutica “Le Pleiadi”, Carpino (FG).

Claudia Coccia

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