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“Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio.” Così si espresse Giustino Fortunato, politico e storico dell’Italia post-unitaria per evidenziare l’esistenza di un problema fino ad allora soltanto ipotizzata.

L’espressione propriamente detta “questione meridionale” venne utilizzata in realtà per la prima volta dal deputato radicale lombardo Antonio Billia per intendere una “disastrosa situazione economica” in cui riversava il Mezzogiorno rispetto alle altre regioni italiane. Siamo nel 1873.

Fino all’Unità geo-politica del nostro Paese c’erano filoni di pensiero idilliaci o volutamente omissivi a riguardo; tra queste insigni voci ricordiamo Saverio Nitti il quale non ravvisava “alcuna differenza sostanziale Nord-Sud”. Sicuramente più aderente alla realtà l’opinione esposta da Antonio Gramsci per il quale non solo esisteva indubbiamente uno scarto, ma era anche piuttosto marcato.

Sarà l’inchiesta Sonnino- Franchetti il primo atto di denuncia ufficiale delle precarie condizioni di vita nella fattispecie relative alla Sicilia, ma estendibili a tutto il Meridione.

Detto che con l’Italia unita la presa di coscienza del fenomeno fu maggiore e palese a tutti i livelli, bisogna aspettare i primi del Novecento per iniziare a vedere timidi segnali d’azione, quando sotto il governo Giolitti verranno avviati progetti di sviluppo al Sud. Ma saranno episodi isolati e poco significativi.

Con il periodo cosiddetto della “Prima Repubblica” i governi che si susseguono stanzieranno a fasi alterne diversi fondi per incentivare ad esempio la creazione di infrastrutture, di grandi opere pubbliche, di opportunità di lavoro al Sud. A regolare la ripresa venne preposto un nuovo organo: la Cassa del Mezzogiorno. Risultato, usando un noto proverbio, tutto fumo e niente arrosto! Di fatto, più che incentivare l’economia meridionale, queste misure rappresentarono forme di assistenzialismo deleterio.

Mentre i vari governi tentennavano sul da farsi, spesso rinviando il problema o tamponandolo con delle toppe già scucite, nel corso dei decenni vari studiosi hanno provato a ricercare le cause del divario Nord-Sud; in linea di massima si è convenuto che i problemi per il Mezzogiorno hanno conosciuto gli albori già in epoca medievale. Qui, infatti, non si instaurarono mai forme avanguardistiche di governo (si pensi ai comuni), con la conseguente assenza di una classe borghese che nei secoli a venire avrebbe cambiato, dove presente chiaramente, la storia italiana ed europea. Di contro, qui al Sud si sviluppò un sentimento di estraneità verso lo Stato che si tradusse in aperta ostilità a volte (pensiamo all’annosa questione del brigantaggio e poi, in forme più organizzate, della mafia). A ciò si aggiungono i problemi definiti “secolari” e nello specifico di più stretta attualità relativi alla carenza di infrastrutture, ai ritardi cronici della pubblica amministrazione e al fenomeno dell’emigrazione, paradigma perfetto di un’Italia a due velocità ( basti pensare al boom economico degli anni ’60 che investì praticamente solo il Centro-Nord della penisola, ingrossando di contro le fila di meridionali che erano costretti a lasciare la loro terra “senza presente né futuro.”

Ricapitolando, esisteva un divario tra il Nord ed il Sud Italia, principalmente economico, che andava accorciato e, magari, annullato. Era più che altro un auspicio utopico visto che, a distanza di secoli, siamo ancora qui immobili a vagheggiare soluzioni.

Argomento di questi giorni che sta animando la politica italiana è il Recovery Plan, il piano di riforme che ciascun membro UE attuerà per la ripresa del proprio Paese dopo la pandemia.

Nei mesi scorsi il governo degli Stati membri di Bruxelles ha stilato una lista di criteri individuativi per distribuire i miliardi da destinare ad ogni singola nazione. Questi parametri sono essenzialmente tre: PIL nazionale, popolazione, disoccupazione. Criteri che, sottolineano dall’Unione, si riferiscono ai Paesi in toto, senza badare a differenze regionali. Chiaramente si presuppone che successivamente, avendo in mano le risorse, ogni singolo governo le sappia destinare dove c’è più bisogno, poiché è il governo nazionale che conosce la situazione economica del proprio Stato.

A rigor di logica, restringendo l’attenzione all’Italia, ci si aspettava una bilancia pendente molto più verso Sud, per il semplice motivo che una pandemia vissuta non può far altro che aggravare fardelli già presenti. Secondo le stime delle regioni meridionali, al Mezzogiorno sarebbe spettato il 70% dei fondi, circa 140 miliardi di euro. Il premier Draghi ha affrontato nei giorni scorsi alle Camere il voto di fiducia che riguarda proprio l’approvazione del piano di ripresa nazionale da presentare a Bruxelles. Durante la discussione in Parlamento viene confermata, per bocca dello stesso capo di governo, il presentimento infausto che temevano già i 500 sindaci meridionali scesi in piazza a Napoli la scorsa domenica a protestare. Di che cosa hanno protestato? Del fatto che il governo Draghi ha deciso di ritoccare al ribasso la percentuale pecuniaria da destinare al Sud. Qui arriveranno solamente il 40% delle risorse totali, ovvero circa 60 miliardi in meno del previsto.

Il Ministero competente, nella persona del Ministro Carfagna, ha subito provato a sedare i mal di pancia evidenziando come, in ogni caso, il PIL meridionale entro il 2026 crescerà molto di più di quello del Nord ( il 22,4% contro il 13,2%). Ci mancherebbe altro, verrebbe da esclamare!

Il punto è semplice; è documentato dai fatti che il Sud Italia ha bisogno di crescere e parecchio. Il Mezzogiorno ha bisogno di mettere nel suo motore economico il quintuplo ( e forse è anche poco) della benzina rispetto al Nord. I miliardi che verranno stanziati sui nostri territori sono di vitale importanza perché il rischio serio del post Covid-19 al Meridione è che questa terra non possa avere più un oggi…e figuriamoci un domani!

Il presidente Draghi non ha ben capito, o meglio finge di non capire, che il Sud è in una rianimazione perenne che allo stato attuale si è ulteriormente aggravata. Il nostro “medico” ci dà poche speranze di vita.

La nostra gente aspetta ancora il “suo” Primo Maggio.

La “Voce” del Sud urla forte il suo dissenso. Qui si vuole vivere, non sopravvivere.

Felice Marcantonio

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