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Il Bitcoin è una moneta virtuale creata nel 2009 da uno o più hacker con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto con lo scopo di decentralizzare il potere economico delle banche.

Si basa su due principi: un registro distribuito che può essere letto o modificato da più nodi della rete, ovvero di pc che ne gestiscono la modalità distributiva grazie alla condivisione peer-to-peer; e l’uso di una forte crittografia per validare e rendere sicure le transazioni.

Una moneta totalmente digitale, smaterializzata. Non si penserebbe mai che inquini, invece non è così.

Essi, infatti, richiedono una grande quantità di energia ed è giusto interrogarsi sull’effettiva sostenibilità, soprattutto in un momento storico in cui c’è grande attenzione ai cambiamenti climatici.

Bitcoin: perché consumano tanta energia?

La realizzazione delle criptovalute (non solo dei Bitcoin, che sono i più noti, ma di tutte le valute virtuali) avviene grazie a un procedimento chiamato mining che consiste nel risolvere complessi problemi matematici in un processo di condivisione della potenza di calcolo degli hardware partecipanti alla rete.

La creazione di criptovalute, pertanto, richiede il lavoro di numerosissimi computer ad alta potenza.

Oltre all’energia per alimentare il computer, che deve rimanere sempre acceso per completare i vari calcoli, il processo di mining richiede energia anche per raffreddare l’hardware ed evitarne il surriscaldamento.

Tuttavia, questa energia è spesso generata tramite combustibili fossili tra cui spicca in negativo il carbone, il più inquinante. Secondo i dati di Bitcoin Electricity Consumption Index dell’Università di Cambridge, infatti, due terzi dei miner si trovavano in Cina, che ricava circa il 60 per cento dell’elettricità proprio da questa fonte.

Inoltre, la richiesta di energia non finisce nel momento dell’estrazione del Bitcoin. Il sistema delle criptovalute si basa non su un organo centrale che le valida, ma sulla blockchain: una rete costituita da blocchi di dati la cui sicurezza è garantita da una catena crittografata. Di conseguenza, per sostenere i calcoli necessari per la crittografia ci vuole un grande dispendio di corrente.

Impatto ambientale

Negli ultimi anni il loro impatto ambientale è notevolmente aumentato in quanto generatori di emissioni di carbonio e CO2.

Secondo il Cambridge Centre for Alternative Finance (CCAF), il Bitcoin è la moneta leader per quanto riguarda il processo di mining più energivoro. Nel 2019 l’Università di Cambridge ha creato il CBECI, un indice che stima in tempo reale su una piattaforma online l’utilizzo di corrente elettrica per le attività di mining in tutto il mondo.

A luglio 2021, la rete delle criptovalute utilizza energia elettrica a un ritmo di 73 terawattora all’anno, circa quanto una nazione di medie dimensioni.

Si potrebbe pensare che basterebbe una transizione a fonti diverse per rendere ecologico il Bitcoin. Ma non sembra del tutto vero. Chi estrae criptovalute lo fa in ogni momento del giorno, sembra così che questo mercato non si possa basare sulle fonti di energia rinnovabili perché troppo discontinue.

Inoltre, per valutare la sostenibilità dell’industria delle criptovalute, bisogna considerare anche il problema della cyber spazzatura. Per rimanere competitivi nella rete, infatti, i minatori devono continuare ad investire in tecnologie sempre più avanzate.

Non solo il Bitcoin

Il Bitcoin non è l’unica criptovaluta estremamente inquinante. Ethereum, la seconda valuta crittografata per diffusione, si basa sullo stesso sistema e ha già raggiunto quasi un terzo della stessa energia utilizzata dal Bitcoin.

logo Ethereum

Ancora, Dogecoin, una criptovaluta molto amata da Musk, si basa sullo stesso schema ma consuma decisamente meno perché ancora poco diffusa.

logo Dogecoin

Storia diversa invece per Cardano, una criptovaluta meno conosciuta basata su una tecnologia blockchain meno dispendiosa di energia elettrica e non a caso il suo valore è cresciuto notevolmente.

logo Cardano

Possibili soluzioni: creazione di un mercato italiano del credito per la rigenerazione ambientale

Una soluzione sembra arrivare da una startup trentina, Free Seas Società Benefit, su iniziativa di alcuni professionisti ed imprenditori attivi nel settore ambientale e della consulenza.

L’idea è quella di unire un sistema digitale di emissione crediti (cioè i token) con il finanziamento di progetti di rigenerazione ambientale.

Progetto in cui i token, che attestano la rigenerazione avvenuta, vengono accettati come credito fiscale per imprese e privati virtuosi, in quanto concreto investimento a beneficio della collettività. Attraverso il coinvolgimento di tutte le parti interessate cittadini, tecnici, aziende ed istituzioni, il Sistema permette di finanziare in modo innovativo le azioni di rigenerazione consentendo a coloro i quali decidono di partecipare agli interventi di valorizzare e rendere concreto il riconoscimento del loro impegno.

Il processo ideato comprende una serie di passaggi precisi. Pone le sue basi nella tecnologia blockchain che, oltre a consentire di sostenere economicamente le iniziative di rigenerazione ambientale, garantisce la massima tracciabilità e immutabilità di tutte le azioni attuate.

Con questa startup, che sta raccogliendo finanziatori, potrebbe nascere allora la prima criptovaluta green italiana.

Chiara Vitone

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