Categories:

Illustrazione di Ilaria Longobardi (@dallamiap.arte)

“Femminicidio” è il termine usato per distinguere i casi di omicidio di vittime di sesso femminile per mano di assassini di sesso maschile per motivi basati sul genere. Fino alla prima metà di novembre di quest’anno, in Italia si contavano 103 donne vittime d’omicidio, delle quali 87 vittime di femminicidio, di cui 60 compiuti da partner o ex partner. 

Opportunamente, per almeno un giorno all’anno, qualcuno si ferma per applicare una striscia di rossetto sotto l’occhio come simbolo per proclamare “Stop violence against women!”, poi, invece, prosegue, un bel respiro e si inizia nuovamente con le solite storie:” “potrebbe farlo sua moglie, almeno lei è carina”, “ma siamo sicuri che non siano queste donne ad esasperare i mariti?”; si potrebbe continuare all’infinito, aggiornando quotidianamente la lista delle frasi che a primo impatto ti fanno chiedere se tu abbia sentito bene o meno, sperando sia uno scherzo.

Invece no: è tutto disgustosamente reale.

Ci si appella immediatamente alla “cultura del pensiero unico” e al politically correct, quando in verità vi sarebbe una soluzione ben più semplice, facile da applicare (almeno in teoria) e che risparmierebbe tutte le successive polemiche: attivare il cervello prima di dar fiato alla cavità orale. 

La discriminazione in nessuna sua forma è un’esplicazione del diritto di opinione. Rileggiamolo, capiamolo e ripetiamolo prima di andare a dormire.

Se la società ha da ribattere sul modo in cui le donne si vestono, si domanda il perché esistano apparentemente lavori femminili e non, si meraviglia dell’uomo che svolge i servizi domestici, si complimenta con lo stesso perché aiuta la moglie con i figli e dice a quest’ultima “ma come sei fortunata ad averne trovato uno così”, la spiegazione è agevole: è un problema culturale.

Per ciò che concerne i capi d’abbigliamento penso che in tant3 abbiamo più volte riflettuto se quella gonna così carina fosse troppo corta, se quel top potesse attirare l’attenzione, se i pantaloni fossero eccessivamente skinny e se magari sarebbe stato più opportuno indossare qualcosa di più anonimo dato che la sera saremmo dovut3 tornare a casa da sol3; perché, okay, ci hanno detto che come eravamo vestit3 non conta, sappiamo che non siamo noi a cercarcela, ma resta comunque meglio evitare.

Invece no! Non dovrebbe essere così.

Cosa ti fa sentire in diritto di fischiare, seguirmi, disturbarmi con frasi rivoltanti, farmi sentire in pericolo e inadeguata, toccarmi, stuprarmi? Perché quando torno a casa devo disturbare qualcuno che mi tenga compagnia al telefono o comunque fingere di avere qualcuno dall’altra parte della cornetta e nel frattempo nella tasca del cappotto la mano che stringe lo spray al peperoncino? Avrei il tempo di pigiare sull’erogatore,nebulizzare e correre via?

Quello della telefonata è un espediente come un altro per poter fuggire da una situazione scomoda: ad esempio, proiettiamoci in un bar; un ragazzo si avvicina e ci chiede se vogliamo bere qualcosa. Noi rispondiamo che non ci va e ringraziamo (perché, quando non ci scusiamo, inseriamo almeno un grazie in ogni frase). L’individuo insiste e replichiamo con un’altra negazione: una volta, due, tre… Fin quando non esordiamo con un “Sono fidanzata!”. Come per magia in quel momento, cessano le ostinate offerte; tutto ciò perché si ha più riguardo di un’altra figura, un uomo, che neanche si conosce, neppure si vede, piuttosto del continuo rifiuto di una persona che è lì davanti in quel momento: ovviamente si tratta di una donna.

È tutto frutto, tutt’ora concimato e coltivato, della oggettivazione del corpo femminile, della conquista, appropriazione e possesso di qualcosa che in realtà è un qualcuno, un essere umano a sé stante. 

Educhiamo al rispetto, al posto di protrarre ad inculcare la mascolinità tossica e il machismo che danneggiano e reprimono tutti. 

Fin quando si esordirà con frasi come “non solo sei bella, ma anche intelligente! Chi se lo sarebbe aspettato” (dunque dovrei anche ringraziarti?) saremo sempre e unicamente considerate un corpo, anche solo per allietare lo sguardo altrui; non importa la posizione che ricopriremo. E se non occupi un ruolo di rilievo è probabilmente per delle “differenze strutturali”, se invece sei ai vertici di una azienda hai sicuramente soddisfatto sessualmente qualche recruiter. Ricordiamoci però, siamo le stesse per le quali mettete il rossetto rosso sotto l’occhio; è bene sottolinearlo nuovamente di tanto in tanto, giusto per non perdere il punto e placare gli animi.

Siamo le stesse persone delle quali vi scambiate i video di revenge porn su Telegram, come fossero figurine Panini e, ovviamente, veniamo stigmatizzate anche per questo; come si suol dire “prima il danno e poi la beffa”.

Il 25 novembre ricorre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. L’istituzione di questa data serve a stimolare la sensibilità sull’argomento. Il primo passo, è la consapevolezza di quanto il fenomeno sia nocivo e la scelta di intervenire con misure idonee a sconfiggerne la diffusione; chissà quando ciò potrà accadere anche per contrastare l’omotransfobia. 

La violenza di genere include anche la posizione anti-abortista degli obiettori di coscienza, il posizionare sui feti croci con il nome delle donne che hanno attuato la Legge n. 194 del 1978, o il lasciar morire una donna aspettando che l’aborto si completi spontaneamente (Izabela era il suo nome, Polonia, settembre 2021). Sull’argomento, l’opinione può essere la qualunque, a meno che non venga esposta con un plurale maiestatis in un programma televisivo: basta che questo tuo pensiero resti tale che, venga applicato nella sfera inerente ai tuoi diritti e alla tua persona e non diventi per gli altri un’imposizione.

Ogni nostro respiro dovrebbe essere dedicato a Victoria Osagie, Tiziana Gentile, Sonia Di Maggio, Piera Napoli, Tina Boero, Saman Abbas, Bruna Mariotto e a tutte le donne martiri solo per essere tali. A tutt3 coloro che hanno denunciato, chiesto aiuto, ma che sono stat3 ignorat3. A chi non riesce a fare neanche questo passo, perché è difficile pure l’idea di affrontare un iter spesso lungo, estenuante e al tempo stesso, a volte, inutile e dover superare anche la sufficienza degli sguardi e delle parole di chi poi ne verrebbe a conoscenza.

Un appello a chiunque si trovi in una situazione di oppressione: non te lo sei meritatə, non devi sopportare, non hai alcuna pena da scontare.

Anna Chiara Paolino

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *