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Illustrazione di Ilaria Longobardi (@dallamiap.arte)

3 settembre 1982, ore 21.15, Palermo. L’auto guidata da Emanuela Setti Carraro, moglie del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, viene affiancata in via Carini da una BMW dalla quale partono a raffica una serie di colpi di mitra. Muoiono sul colpo il generale e la consorte, oltre all’agente di scorta Domenico Russo, che seguiva i coniugi con un’altra vettura.

Dalla Chiesa a Palermo: il contesto storico

L’omicidio dalla Chiesa rientra in quel contesto stragista mafioso che bagnò di sangue Palermo e la Sicilia per tutti gli anni ’80, fino al culmine toccato al principio del decennio successivo. Le motivazioni che portavano Cosa Nostra a compiere atti così vili erano sempre le stesse. Animati dalla paura di essere scovati e consegnati alla giustizia, questi sceglievano la lingua che conoscevano meglio, quella della violenza, per eliminare un problema prima che un altro se ne presentasse.

Fu esattamente così nel caso del generale dalla Chiesa, uno che già aveva avuto modo di confrontarsi con un fenomeno chiamato “mafia” ancora da pochi.

A guidarlo un metodo di lavoro ferreo e mirato. Del resto, la sua formazione gli imponeva un atteggiamento molto rigoroso, quasi estremo. Un modus operandi che portò alle critiche dei soliti “tuttologi” di professione.

È il 30 aprile 1982 quando Carlo Alberto dalla Chiesa viene nominato prefetto di Palermo. Lo stesso giorno un terribile agguato portò alla morte del segretario regionale del Pci, Pio la Torre. Mandare in Sicilia un uomo che non aveva certo bisogno di presentazioni significava un primo riconoscimento del fenomeno mafioso, una prima affermazione chiara della sua esistenza.

Certo, parliamo ancora di un’isola invasa dall’omertà, dal negazionismo. Ma quantomeno qualcuno, parte delle istituzioni, aveva carpito l’esigenza di agire bene e in fretta.

Detto ciò, il nuovo prefetto non trovò alcuna condizione per svolgere il proprio arduo compito con efficacia. Come altri prima e dopo di lui dalla Chiesa venne lasciato solo, abbandonato ancor prima di partire in guerra. Una sensazione che lo stesso percepì subito quando dichiarò in una delle prime interviste da Palermo che gli “erano stati conferiti gli stessi poteri del prefetto di Forlì”.

Una constatazione amara che mostra da un lato quanto fosse lungimirante il generale, quanto fosse cosciente della realtà che di fatto non aveva ancora toccato con mano in maniera approfondita. D’altra parte si palesa l’assenza ingiustificata dello “Stato”, come spesso è accaduto nella storia di questo Paese.

Cento giorni “solo al comando”

Dalla Chiesa poté operare con i limiti imposti dai piani alti per cento giorni. Un periodo da “un uomo solo al comando” capace, comunque, di arrivare a tracciare la strada per scoprire scottanti verità.

Già prima del suo insediamento, colui che fu prima parte attiva della Resistenza e poi artefice del crollo delle Brigate Rosse era conscio di affrontare un problema più grande di quello descritto. Fu dalla Chiesa il primo a comprendere l’esistenza di una forte commistione tra mafia e politica. Per primo il generale “tutto d’un pezzo” sottolineò l’esigenza di tener sempre presente questa fondamentale premessa quando si parla di lotta alla mafia.

In quell’isola il male non erano solo i criminali con la pistola, ma anche quelli in giacca e cravatta. Lo stesso dalla Chiesa così si esprimeva prima di assumere l’incarico da prefetto: “Vado a Palermo anche per indagare sulla famiglia politica più inquinata della Sicilia”. Il riferimento era al gruppo che sosteneva Giulio Andreotti.

Era un sistema malato che bisognava distruggere dalle fondamenta. Un obiettivo da perseguire con metodo, una prerogativa che accompagnò fino all’ultimo la vita e la carriera di un grande personaggio italiano, uno di quelli che bisogna andarne davvero fieri. Allo stesso tempo, uno a cui è d’obbligo, ovunque egli sia oggi, chiedere scusa per averlo abbandonato, per non aver combattuto una guerra che non era del singolo ma di una comunità intera.

L’ultima constatazione, che sapeva di resa, il generale dalla Chiesa l’ha affidata a Giorgio Bocca. Al giornalista in questione disse: “Un uomo delle istituzioni viene colpito quando è diventato troppo pericoloso. Lo si può uccidere perché è isolato”.

La sua nota cassaforte avrebbe potuto consegnare ai posteri giustizia e verità. La ritrovarono vuota dopo il brutale assassinio. Particolare: dentro c’era la documentazione sul caso Aldo Moro.

Omicidio dalla Chiesa, cosa resta oggi?

Quale eredità dopo 40 anni di silenzi e depistaggi? Nessuna, purtroppo, a parte l’ammissione di una voce anonima che scrisse sul luogo dell’attentato: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Una verità solo parzialmente modificata dal tempo.

Per il resto, ci resta l’impotenza dell’ennesima corte giuridica che fa il paio all’ostruzionismo di chi dopo tanti anni ancora si guarda bene dallo svelare l’unica verità possibile. Tra questi, uomini delle istituzioni (come “da tradizione”) ma anche parte del mondo giornalistico.

Il cosiddetto “servizio pubblico” intento a badare ad anacronistiche logiche da campagna elettorale piuttosto che dare quantomeno un po’ di visibilità ad un uomo che l’Italia, possiamo ben dirlo, non ha saputo meritare.

Felice Marcantonio

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