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Secondo la direttiva Ue, i datori di lavoro dovranno dichiarare nell’annuncio di lavoro o subito prima del colloquio il livello retributivo. L’intento è quello di contrastare il cosiddetto gender pay gap, il divario salariale tra i generi

Il progetto

La direttiva, proposta dalla Commissione, è stata approvata il 30 marzo scorso dal Parlamento di Strasburgo con larghissima maggioranza: 427 voti favorevoli, 79 contrari e 76 astensioni. Ne sono vincolati i 27 Paesi membri che avranno a disposizione tre anni per applicarla in maniera compiuta.

Le nuove regole pongono sulle aziende l’obbligo di rendere noto immediatamente, negli annunci di lavoro o prima del colloquio, il livello di retribuzione offerto per la posizione e l’avanzamento di carriera.

L’obiettivo posto è quello di rafforzare il diritto dei lavoratori ad avere informazioni chiare sugli stipendi, imponendo che le strutture degli stessi siano basate su criteri neutrali rispetto al genere.

Il fenomeno del gender pay gap in Italia è piuttosto evidente. Nonostante il principio della parità salariale sia sancito dai trattati europei, la sua applicazione appare limitata e le cittadine europee guadagnano in media il 13% in meno all’ora, rispetto ai colleghi uomini. Per le vittime di tale discriminazione, il provvedimento prevede anche regole in campo di risarcimento.

Inoltre, viene sancito come le imprese con più di 100 dipendenti saranno tenute a riferire all’autorità nazionale competente una relazione annuale in tema di divario retributivo di genere e le misure adottate per contrastarlo.

Al superamento, di tali disparità, del 5% non giustificabile, i datori saranno tenuti a prendere contromisure, effettuando una valutazione congiunta degli stipendi e degli aumenti in collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori in azienda. In questo modo, lavoratori e lavoratrici saranno a conoscenza dei criteri utilizzati, così da avere un quadro più chiaro circa le politiche aziendali.

Gli stati membri dovranno mettere in atto sanzioni efficaci qualora non vengano rispettate tali normative.

No al segreto retributivo e alle selezioni al buio

Il Parlamento europeo, così facendo, auspica di porre fine al segreto retributivo, una tendenza diventata ormai prassi. Si impone la massima trasparenza, già a partire dal momento in cui si pubblica, anche tramite strumenti online, un annuncio di lavoro.

Non solo, in fase di colloquio con l’HR Manager o con il datore di lavoro non sarà più concesso chiedere ai candidati quanto guadagnavano precedentemente per non influenzare la retribuzione offerta. Non potranno essere più valide clausole che impediscano ai lavoratori di divulgare informazioni sul proprio livello salariale o di chiedere informazioni sulla paga di altre categorie di dipendenti.

Inoltre, le nuove misure non si riferiscono solo alla vita in azienda, ma regolano anche il meccanismo di selezione. È la fine anche per le cosiddette “selezioni al buio”, quelle in cui manca una specifica indicazione sia dello stipendio che della mansione vera e propria

Ripasso sulla legislazione italiana

La direttiva Ue rappresenta così un’ulteriore passo avanti. Progressista, moderna, femminista, liberale: una dimostrazione di come le battaglie femministe per la parità di genere facciano bene a tutti, anche agli uomini.

In un’epoca in cui vige il culto della carriera e la ricerca ossessiva di gratificare i superiori, si moltiplicano le discriminazioni e i soprusi che avvengono già in sede di colloquio. Ciò dovuto, in parte, dall’indegna ma accettata convinzione che il datore di lavoro incarni l’archetipo dell’eroe, del benefattore universale, confondendo uno scambio di prestazioni con una vera e propria salvezza.

“È sposata o convive?”, “Ha intenzione di avere figli?”,Chi se ne occuperà mentre è al lavoro?” sono le domande illegali più frequenti rivolte soprattutto alle donne, specialmente se in età fertile. Ed ecco che alle candidate inizia una vera e propria inchiesta sulla vita privata.

La legge arriva in aiuto su questo. Per esempio, l’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006) specifica come

“è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.

Il secondo comma dell’articolo spiega che la discriminazione è proibita anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza.

Ancora, l’art.8 dello statuto dei lavoratori vieta “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Anche sapere che lavoro facciano i propri genitori non è interessante ai fini di un colloquio, come dice il decreto 198 del 2006.

Di fronte a una domanda illegale può essere difficile rifiutarsi di rispondere in maniera altrettanto diretta. È possibile segnalare successivamente l’accaduto in modo gratuito alle Consigliere di parità del proprio territorio oppure ai diversi sportelli delle associazioni che si occupano di donne e diritti negati.

C’è ancora tanto per cui lottare, nonostante ci siano regole chiare già scritte per evitare discriminazioni. E allora vale la pena ricordarle.

Chiara Vitone

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