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Illustrazione a cura di Ilaria Longobardi
( @dallamiap.arte)

Reduci di una pandemia mondiale, questa resta un’affermazione persistente, quasi radicata. Nel giovane italiano è sorto, da molto tempo oramai, uno spirito di rassegnazione nei confronti del progresso scientifico, in particolare della ricerca. La “fuga dei cervelli” ne rappresenta l’effetto specchio-riflesso. 

Concentrandomi sulle mie radici, questi concetti risuonano fortemente. 

C’è un senso di inadeguatezza nel Meridione. Questa terra, che porta con sé ancora macigni troppo grandi da colmare, è spesso sottovalutata, anteposta al progresso, non solo scientifico. 

Resta così, fissa nei suoi schemi.

Eppure la storia non è tutta riportata nei libri di scuola. È bene sapere che nasconde segreti, avventure non raccontate, personalità non citate. 

Siate curiosi!

Il Sud non è stato solo brigantaggio, neppure è rimasto feudo. 

È stata la culla di moltissime personalità che hanno dato anima all’innovazione e al progresso scientifico, che hanno sviluppato cure e ricevuto premiazioni. Lo racconta il giornalista Pietro Greco nel “Il Mezzogiorno di scienza”, narrando storie di ben quattordici scienziati del Sud d’Italia. 

“Volevamo ricordare”, dice, “che anche nel Meridione sono nati grandi scienziati i quali hanno dato, attraverso la loro opera, un importante contributo al progresso delle loro terre e di tutta l’Italia”, come il botanico napoletano Domenico Cirillo ed il chimico palermitano Stanislao Cannizzaro, entrambe personalità che la storia condanna a destini tragici, ma che riuscirono a lasciare un’impronta nel mondo della scienza, così come la determinazione di Maria Bakunin, di origini napoletane, diventata la prima italiana laureata in chimica. Ne potremmo menzionare tanti altri, tra cui Domenico Marotta, Mauro Picone, Edoardo Caianiello, i quali cercarono di fare della scienza uno strumento di rinascita per tutto il Paese. 

Storicamente spiccano grandi personalità anche tra le donne: basti pensare a Rosalind Franklin, diventata un riferimento non solo scientifico, ma simbolo dell’emancipazione femminile. La stessa Franklin è accompagnata da tante altre donne di successo e non occorrerebbe andare molto lontano; la nostra terra ne è la prova. 

Tra le più recenti abbiamo Filomena Nitti, figlia del meridionalista, statista antifascista ed ex Presidente del Consiglio dei ministri Francesco Saverio Nitti, nacque a Napoli e fu costretta, a causa delle persecuzioni fasciste, ad emigrare prima in Svizzera e poi in Francia. Lontano dell’Italia, si laureò nel 1935 a Parigi, dove cominciò a lavorare per diverse farmacie parigine come analista chimica e presso l’Istituto Pasteur, nel Laboratorio di chimica terapeutica, in cui vi era anche il biochimico e suo futuro marito, Daniel Bovet. Per le scoperte sui curari e gli antistaminici, Daniel Bovet ricevette il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia. Nonostante la buona parte del successo delle scoperte dipendessero proprio dalle sue abilità, la Nitti venne esclusa della premiazione. Anche lei rappresenta l’immagine di una giovane donna, non solo rassegnata a vivere nell’ombra, ma anche costretta a dover abbandonare l’Italia. 

Un particolare appunto viene espresso da “La Repubblica”, secondo cui il nostro Paese sembra opporsi al progresso scientifico; ciò avvenne soprattutto durante gli anni Sessanta. Coincidenze che sembrano segnare un destino amaro e retrogrado, ridotto alla sola produzione di beni di bassa o media tecnologia. Da quel momento in poi, ci si aspettava ancora di essere sollevati. “Si continua a sfornare ottimi ricercatori, che non possono fare altro che andarsene a lavorare altrove”.

Eppure deve esserci una sottile ma insistente differenza tra passato e futuro. 

Nel mondo attuale e globalizzato, infatti, l’emigrazione “culturale” diventa una vera e propria scelta, non più forzata da cause esterne, se non dall’Italia stessa, che sembra non capire. Oggi, tra i nomi dei più grandi ricercatori, la maggior parte potrebbe essere composta da nomi italiani, malgrado rappresentino una minoranza.

Succede perché la storia insegna, ma si fa ben poco per cambiarla. La realizzazione del singolo non coincide ancora con la realizzazione della totalità del Paese.

È questo il concetto su cui dovrebbe concentrarsi un italiano. 

Si allude alla ricerca come se fosse un’utopia. 

Ciononostante, il confine tra questa e la realtà sarebbe plausibile, possibile; in questo periodo storico ci è stato dimostrato in ogni modo. Tra le righe dei prossimi libri di scuola, i nostri nipoti si porranno delle domande, le stesse che oggi vengono palesemente ignorate. 

Siamo dotati di strumenti inalienabili, nelle nostre teste, ma non abbiamo la possibilità o il diritto di potercene servire qui ed ora. 

E quando il mondo si ferma, ci guardiamo intorno, perché sembra sempre troppo tardi per iniziare. Avvertiamo un senso di smarrimento, nessuna rassicurazione. 

Basti pensare alle numerose notizie riguardo al vaccino contro il Covid-19. Basti pensare al Covid-19. 

C’è stato un terrore di massa, accompagnato ad un senso di inadeguatezza incolmabile.  Poca ed errata divulgazione scientifica. 

Eppure, si potrebbero menzionare personalità come Federico Fornesis, Carla Colombo o Matteo Iannacone. Al sud potrei citare Andrea Rapisarda, associato di Fisica teorica dell’ateneo catanese, Alessio Biondo, Giuseppe Inturri, Vito Latora, Alessandro Pluchino, Rosario Le Moli, Nadia Giuffrida, i quali hanno cercato di identificare le zone più a rischio di contagio e di rispondere ai numerosi perché. 

Iannocone afferma: “Questa pandemia è così grave anche perché non è stato fatto il lavoro di ricerca di base sui coronavirus che si sarebbe dovuto fare”. Ripetere l’errore sarebbe gravissimo.

Parole al vento ed, ancora una volta, pochi investimenti.

Un articolo di “ANSA.it” sostiene che “In Italia la fiducia verso la comunità scientifica si è attestata sull’84%, al 42% quella per il governo e al 35% quella verso le altre persone.” Nonostante ciò, abbiamo pochi dati concreti.

A causa dello scarso contributo a livello statale, sono sempre più sulle spalle del terzo settore solo come fondazioni e onlus a scopo di ricerca ed occorre sottolineare che si alimentano grazie alla generosità dei cittadini.

Che la tragica esperienza affrontata negli ultimi anni sia da punto di inizio!

Si inizia stando dalla parte dei curiosi, di chi sperimenta, non lasciando le grandi responsabilità agli altri. Si inizia creando le piattaforme giuste per decollare, con il sostegno giusto per potersi buttare nelle scoperte, nella ricerca. 

Giocare in casa, ma con le carte a disposizione, prendendo le distanze dagli schemi fissi ed impostati, cambiare i numeri, avere prospettive non solo più ampie, ma colorate di innovazione.

Ad un meridionale tocca il doppio del lavoro: allontanarsi dal baratro del pregiudizio, dell’impotenza, sbloccare lo stallo a favore di una dinamicità sempre maggiore, sostenendola. Iniziare ad emergere, tenendo stretti quei semi, quasi gelosamente, crederci e prendersene cura, difendendone il valore, come un fiore. 

Claudia Coccia

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