Categories:

REVENGE PORN FOR DUMMIES

In questi giorni stiamo assistendo all’ennesimo caso di revenge porn nel nostro paese del quale vittima è Diana Di Meo. 

Il revenge porn, letteralmente “porno vendicativo”, è un reato in Italia annoverato all’art. 612-ter del Codice penale, introdotto dalla legge 19 luglio 2019 n.69 “Codice Rosso”, la quale ha apportato modifiche al nostro ordinamento. Il reato si sostanzia nella diffusione non consensuale di materiale sessualmente esplicito e lo scopo dell’autore del reato è recare danno all’altra persona, appunto presente in questo materiale. Il bene giuridicamente protetto è la libertà morale. 

Ma cos’è questa libertà morale? E soprattutto perché mai essa viene ulteriormente oltraggiata non solo dalla circolazione e diffusione esponenziale dei video e delle foto, ma anche dalla notizia stessa, sia del reato in sé che della denuncia? La libertà morale rientra nella categoria costituzionalmente protetta delle libertà individuali che affluiscono nelle libertà e diritti fondamentali (diritti di primo livello) i quali, assieme ai primi 12 articoli, costituiscono il fulcro e il patrimonio inamovibile della nostra Costituzione. Consiste nella titolarità di ciascun individuo di autodeterminarsi spontaneamente senza dover subire forme illegittime di costrizione o limitazione. 

La pena per la violazione della suddetta libertà tramite il reato di revenge porn consiste nella reclusione da un anno a sei anni in aggiunta a una multa che viaggia dai €5.000 ai €15.000. 

Le ipotesi principali sono due. La più grave è la diffusione da parte dell’autore del video; da non intendersi il soggetto protagonista, che resta vittima, ma la prima persona che lo diffonde e lo invia a terzi senza avere il consenso del soggetto ritratto. La seconda ipotesi consiste poi nelle ulteriori diffusioni; ebbene sì, anche se inoltriamo materiale che viene diffuso inizialmente da altri siamo perseguibili penalmente e quindi rei.

Diana Di Meo ha denunciato anche via social ciò che le sta accadendo, per elargire una spiegazione pubblica dopo le migliaia di segnalazioni che le erano arrivate. 

Il terreno fertile di queste diffusioni e scambi sono gruppi telegram e whatsapp dominati dalla cultura dello stupro. La cultura dello stupro è figlia del patriarcato (“ecco che arriva il papiro sul patriarcato”): la possessione, l’oggettivizzazione, la sessualizzazione del corpo femminile. La donna è lì per determinati scopi: cucinare, pulire, figliare e soddisfare il partner. Poi le si è dato il “contentino” di lavorare, ma sempre in aggiunta ai compiti prima elencati, perché, una donna che non svolge i primi non si può definire tale.

Tutto ciò è eloquente nell’industria pornografica più commerciale: il porno è incentrato sul piacere maschile e per assurdo, lo è anche lo stesso porno lesbo. Da qui nasce poi il “porno etico” che riscrive il concetto dello stesso. Ma perché sulla nostra sfera sessuale e sull’immagine personale che abbiamo del sesso si rispecchia il porno, il quale è un’industria cinematografica e, per questo, palesemente finzione? Perché noi sappiamo che la realtà non è ciò che accade in Matrix e quindi evitiamo di comportarci di conseguenza? La risposta consiste nella mancanza di una sana educazione sessuale, o perlomeno nella sua rarità. Il sesso è un tabù e da genitori e insegnanti scegliamo di ignorare la sua esistenza piuttosto di prenderci la responsabilità di educare i nostri figli a delle scelte sane per tutelare la loro salute e la loro stessa vita e quelle di chi si relazionerà con loro.

Purtroppo questa ignoranza e mancata educazione si manifestano col capire quando possiamo disporre o meno di un qualcosa di privato e personale appartenente ad un altro soggetto. 

Inizialmente si accennava che la libertà morale venga calpestata anche dalla notizia in sé dell’avvenuto reato perché, all’annuncio di quest’ultima, si rinvengono due schieramenti: coloro che cercano di dare solidarietà alla vittima, persona gravemente lesa e chi invece “punta il dito” contro la stessa. 

Il victim blaming (accusare la vittima, incolparla) dilaga poi in diverse sfumature. C’è chi sostiene che lei abbia sbagliato in primis a girare i filmati (dei quali alcuni, nel caso Di Meo, sono stati registrati a sua insaputa): la ripresa di materiale raffigurante la propria persona, rientra nelle disposizioni della libertà dell’individuo, la diffusione non consensuale è il problema. 

Leggendo i commenti sotto il post Facebook di un noto quotidiano vi è la possibilità di leggere di tutto: “è in cerca di attenzioni, vuole diventare famosa”, “facendo queste cose si conoscono i rischi che si corrono”, “non credo che le abbiano hackerato il telefono”, “impossibile che li abbiano fatti a sua insaputa”. Queste frasi sono l’ennesima dimostrazione del perché questi fenomeni si propaghino a dismisura. 

Ancor più rivoltante sono i soggetti che “per curiosità” poi cercano i suddetti video: la riproduzione degli stessi è sempre una violazione alla persona lesa. Ma la ciliegina sulla torta è il riguardo che si è avuto sulla professione di Diana Di Meo: le testate giornalistiche riportano la stessa e i lettori si concentrano sulla parola “arbitra”. Purtroppo fra le mille polemiche inutili, basterebbe capire che “arbitra” altro non è che il semplicissimo femminile di arbitro.

Dalla testimonianza di Diana Di Meo cerchiamo di trarne il vero scopo: divulgare un messaggio di solidarietà nei confronti di tutte le vittime che, essendo tali, non sono in alcun modo colpevoli, nella speranza che questo orrore si plachi e arrivi a una fine.

Anna Chiara Paolino

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *