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Il 2022 è stato l’anno con il più alto tasso di suicidi in cella. Nei primi dieci mesi ci sono stati ben 74 suicidi di detenuti, 35 in più rispetto all’anno precedente.

L’allarme è stato lanciato dagli attivisti di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” (https://www.antigone.it/index.php) che da anni si occupa delle condizioni all’interno dei carceri, a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale.

In particolare, Antigone promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese, divulgando informazioni sulla realtà carceraria.

“Fuori dal carcere -spiega il referente nazionale Alessio Scandurra- il tasso di suicidio è di 0.67 persone ogni 10mila abitanti. In carcere sale a 10,6 persone ogni 10mila detenuti. Dieci volte tanto”.

Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca al decimo posto tra i Paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere.

Sono numeri che dovrebbero far riflettere chi si occupa di giustizia.

Il report dell’associazione

Ogni suicidio cela dietro di sé una storia che meriterebbe di essere analizzata senza trasformarla in un numero. Ma i numeri ci sono e vanno interpretati. Numeri così alti non possono non indurre ad uno sguardo d’insieme come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti.

Tra i corridoi degli istituti penitenziari italiani si incrociano storie di vite diverse, molte interrotte troppo presto. Secondo un rapporto dell’associazione, infatti, l’età media delle persone che si sono suicidate è di soli 37 anni. La maggior parte dei suicidi si consuma nella fascia d’età tra i 30 e i 39 anni, seguita da quella tra i 20 e i 29 anni.

Quanto alla nazionalità, le persone di origine straniera erano 28 (47,5% dei casi): “Tenendo conto che la percentuale di stranieri in carcere è ad oggi leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (17.675 su 55.637), ciò implica che il tasso di suicidi è significativamente maggiore nei detenuti di origine straniera rispetto agli italiani: il primo è quasi il doppio del secondo” osserva Antigone nel suo dossier.

“Ci sono stati casi di suicidio pochi mesi prima dell’uscita dal carcere”, rivela Michele Miravalle, componente dell’osservatorio nazionale di Antigone, “mentre molte persone che si sono tolte la vita erano ancora in attesa di giudizio”.

Altri, poi, sono avvenuti dopo brevi permanenze e, nella maggior parte, le persone erano affette da patologie psichiatriche. Quello della salute mentale in carcere può definirsi, infatti, un’emergenza. Il carcere italiano non ha strumenti per affrontare molte di queste situazioni perché all’interno persiste un’emorragia di personale professionale sanitario e di operatori di salute mentale che sistematicamente mancano. Spesso si ricorre all’uso dello psicofarmaco senza poter fare null’altro, di cui il 40% dei detenuti ne fa uso sistematico.

Certo, dei detenuti si parla, ma sempre molto poco e quasi mai si ha una reale contezza di cosa significhi. Spesso la loro condizione psichiatrica non è compatibile con la detenzione, eppure questa è la misura che viene disposta ed eseguita.

Negli istituti penitenziari ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna

Seppur bisogna attendere la fine dell’anno per scoprire il tasso del 2022, considerato il numero di decessi già avvenuti, il valore sembra destinato a crescere rispetto al biennio precedente.

Ma perché questo rischia di passare alla storia come l’anno con il numero di suicidi più alti dell’ultimo ventennio?

Non è affatto banale sottolineare come questo sia stato il primo anno post pandemico. Il carcere si sta riprendendo dalla pandemia molto più lentamente della società: molti progetti, anche nel mondo del volontariato, sono andati avanti a singhiozzo e alcuni si sono fermati e non hanno più ripreso. È chiaro come esso si trovi in una situazione di abbandono, di solitudine.

Venendo alle possibilità che si aprono all’interno, invece, bisogna tenere conto del fatto che lavori poco più di un terzo della popolazione detenuta e che nel 2021 si siano laureati solo 19 detenuti: ciò, nonostante il lavoro e l’istruzione costituiscano un’attività trattamentale fondamentale per le persone detenute perché possono rappresentare una via d’uscita dai percorsi di criminalità.

Mancano ad oggi molti educatori e in alcune regioni un solo direttore gestisce due o più carceri.

Sovraffollamento

Ad oggi, l’istituto dove sono avvenuti più casi di suicidio dall’inizio dell’anno è la casa circondariale di Foggia con quattro decessi. Seguono, con tre suicidi ognuno, le case circondariali di Milano San Vittore, Monza e Roma Regina Coeli.

“Possiamo notare come si tratta nella maggior parte dei casi di istituti di grandi dimensioni e, ad esclusione di Palermo, di case circondariali. Quasi tutti soffrono da anni di una situazione cronica di sovraffollamento, che nel caso di Foggia, Regina Coeli e Monza si aggira addirittura intorno al 150% della loro capienza”: si legge nel dossier.

Infatti, torna a crescere il numero dei detenuti dopo essere drasticamente sceso durante il primo anno della pandemia. In alcune regioni, soprattutto, il tasso di affollamento è decisamente più alto della media nazionale: in Puglia, ad esempio, è pari al 134,5%, in Lombardia al 129,9%.

L’Italia si conferma, ancora una volta, tra i Paesi con le carceri più affollate dell’Unione Europea.

Verso il cambiamento

Da qui la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro.

Vanno favoriti interventi che abbiano un impatto positivo su tutta la popolazione detenuta e che possano avere un effetto ancora più forte su persone con profonde sofferenze. 

Il sistema penitenziario italiano è in forte crisi. Urge, pertanto, di un processo di modernizzazione nel segno di una maggiore attenzione ai diritti e alla dignità delle persone. Inoltre, è necessario che la tecnologia sia messa al servizio di una pena che garantisca relazioni sociali, educative e affettive con l’esterno.

Come ricorda Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: “ci vuole più scuola e ci vuole più lavoro qualificato”.

Chiara Vitone

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