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Giornate uggiose di novembre sono state illuminate da Eugenio Barba, nato e cresciuto a Gallipoli, ma residente ormai da molti anni nel nord della Danimarca, precisamente ad Holstebro. La sua inaudita compagnia teatrale multiculturale porta il nome di “Odin Teatret” e precisamente è un “teatro-laboratorio”. Ognuno deve mettersi al servizio della propria arte. Ognuno deve partire dalla propria interiorità e attraverso la volontà, agire.

È una compagnia che il regista brindisino, allievo di Jerzy Marian Grotowski, regista teatrale del Novecento, fonda nel 1964. Il teatro Abeliano ha accolto per ben una settimana questo gruppo, questa massa di anime belle e lavoratrici. Lavoratrici perché, attraverso esercizi di acrobazie, improvvisazioni e concentrazione, sono disposti a mettere in mostra lo sforzo che fanno per costruire uno spettacolo, il quale più che “spettacolo”, è “vita”.

<<Il training è duro ma necessario, lo spettatore deve vedere tutt’altro che la tecnica!>>.

Sono parole dell’attrice Roberta Carreri, una delle poche italiane della compagnia. La tecnica per essere invisibile deve essere sentita. L’attore deve dare un significato a tutto ciò che mette in pratica, partendo dai suoi bisogni interiori.

Prima di recarmi a teatro, guardai delle interviste per immaginare cosa o meglio chi, avrei trovato davanti a me. Perché dietro ogni spettacolo, come dietro ogni persona, c’è un’idea, c’è un pensiero che sobbalza nel momento opportuno.

Beh, quelle interviste furono importanti, perché mi ritrovai esattamente nella posizione di Barba, nel momento in cui esprimeva il suo concetto sulla morte. È strano, si, lo è perché siamo presi da “tanto altro” e non ci soffermiamo su ciò che provoca afflizione. Ma farei di tutto per trasportare chiunque su una sedia e fargli ascoltare quelle stesse parole ascoltate da me.

Se nel teatro risiede la vita, allora è presente anche la morte, in quanto l’una non esiste senza l’altra. Il regista ritrova la morte ogni giorno, ha a che fare ogni giorno con essa, ogni volta che un attore va via dalla sua compagnia è come se morisse un pezzo della sua esistenza. Io credo, che come lui, per molti è così.

Ma la vita a questo punto, come facciamo a ritrovarla in fretta?

Barba ha sostenuto che ogni generazione è costretta a reinventare il teatro e forse anche per questa sua dichiarazione ha voluto creare un cerchio sul palcoscenico facendo posizionare chiunque, su una sedia e cercando la giusta domanda a cui rispondere, è riuscito ad istaurare un dialogo tra tutti : “Di cosa parlano i registi quando si incontrano?”

Parlano di qualcosa che deve ancora nascere. Parlano dell’invisibile e della coscienza. Parlano di come possano incastrarsi le idee e come queste ultime possano emergere e avere successo.

Dunque, il cuore dell’incontro con l’Odin teatret è stato il “pensiero in azione”: ogni vera azione è una vera reazione. E la reazione è importante. Non solo quella del pubblico, ma anche e soprattutto quella di chi abita il palcoscenico. Ed è giusto, come continua a fare Barba, intrecciare le azioni descritte nel testo e le azioni vocali. È giusto intrecciare l’attore e lo spettatore perché non esiste ripartizione per “ciò che si sente”.

L’unica differenza risiede nel corpo e non in chi lo possiede. È giusto trasportare sullo stesso piano chi mette in pratica e chi non fa, in quanto non attore. È giusto mettere insieme culture, mettere insieme origini e personalità. Perché la vera distinzione non è innata, purtroppo, la si crea.

Chiara Vitillo

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