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Leggenda privata è un romanzo “mitico-psicanalitico”.
Un’Accademia di mostri dai contorni incerti costringe Mari, nella casa di campagna protagonista di altre opere, ad addentrarsi nel “bio” del suo autobiografismo letterario.

L’affabulazione dell’io per Mari è un io‐oggetto a cui si racconta e che dalle cose è originato.
Si commuove della sua stessa voce, il bambino Michele, mentre ci rivela un’insonnia antica che porta addosso come tangibilità del malessere di esistere.
Crea un personaggio, è proiezione di sé. Si sdoppia per vivere, in un universo gotico e senza luce. Dove due forze, la madre e il padre, sono in opposizione, schiacciano. Generano il mostro.
Il padre, il celebre Enzo Mari, che lo definisce “bambino-culattina”, la madre immagine di malinconia e fragilità.

«Che mio padre sia stato un genio è cosa troppo conclamata perché io la debba qui argomentare; che il suo carattere si collochi all’intersezione di Mosè con John Huston, pure; che il mio rapporto secolui sia stato un cimento stremante, ancora, è abbastanza vulgato (leggete tra le righe del pregresso, se vi va); che la mia ammirazione per lui sia stata tale da impedire sul nascere ogni sano antagonismo non è sfuggito ai pochi, allibiti testimoni; che io dunque abbia interiorizzato i suoi zaratustrici apoftegmi fino al punto di superarlo in oltranza; che, propter hoc, ogni tentativo di sottrarmi alla sua autorità sia equivalso a un automassacro; e che, insomma, tutto questo per dire che, poiché la specifica qualità del mio rapporto con lui è stata nel tempo UN AMMIRATO TERRORE, adesso che egli è indebolito dalla vecchiaia e dalla malattia, io letteralmente non lo riconosco più: proprio nell’insorgere di un’inedita pietas sentendo anzi di abiurarlo e di offenderlo.».

Il bambino nevrotico nasce dall’”amplesso abominevole” di queste due figure. È lui, Mari, il mostro.
Il linguaggio è complesso, sfaccettato, barocco. Una lingua altra nuova e antica, ricercatissima, sfrontata nel portare su carta la tradizione intima delle parole della sua famiglia.

Altra nota fondamentale è l’uso delle foto, prova della tensione, sguardi catturati di un’infanzia che non protegge, ma rivela.

Recensione a cura di Martina Pellec

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