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Di frasi “fatte” ne sentiamo tante. Spesso queste assumono contorni di ipocrisia e allora si fa davvero fatica a cercare di comprendere il perché vengano pronunciate.

Quante volte si dice: “La salute viene prima di tutto!” e ancora: “L’importante è la salute!” ma anche: “Finché c’è la salute c’è tutto!”

Belle parole, certo. Sicuramente condivisibili. Peccato che a volte (diciamo pure con una certa preoccupante frequenza) questi nobili principi vengano soppiantati da fredde e squallide logiche economiche. Per la serie “predicare bene e razzolare male”.

Non è difficile, a tal proposito, volgere lo sguardo verso la città di Taranto, dove l’antifrasi tra “morale” ed “ipocrisia” ha raggiunto livelli ineguagliabili.

Come è noto, la città dei “due mari” è sede da decenni della più grande acciaieria d’Europa, una volta chiamata Ilva, per poi cambiare dicitura in Arcelor-Mittal.

Ad un primo sguardo, l’impianto rappresenta una sorta di “fiore all’occhiello” per la città, un vero e proprio “vanto”. Legittimo e naturale pensare questo… ad una prima occhiata superficiale.

Già! Perché nel corso degli anni i tarantini si sono svegliati dal “sogno” industriale e hanno pagato sulla loro pelle gli effetti del “mostro”, come oggi viene considerata da molti l’acciaieria.

E’ successo, infatti, che mentre i “piani alti” pensavano al solo lucro (a volte vera e propria droga), un’intera città collezionava gli effetti “collaterali” del fantomatico “progresso”.

La nostra Costituzione prevede due articoli (il 32 e il 4) in cui viene dichiarato il diritto alla salute e quello al lavoro.

Due principi, questi, che a Taranto vengono rinnegati da nubi tossiche, le quali avvolgono i palazzi e finiscono dritte nei corpi di innocenti che a poco a poco si vedono morire.

La Taranto di oggi, è molto lontana dall’idea che gli organi di comando avevano immaginato quando fecero erigere, in prossimità del quartiere Tamburi (divenuto tristemente noto) l’ex Ilva.

O forse, non è poi così tanto diversa da ciò che ci si aspettava. Chi è al vertice di uno Stato, di un’impresa, sa’ benissimo i pro e i contro di un nuovo progetto. Soltanto che spesso capita sacrificare “qualcosa” per il puro e freddo interesse economico.

Peccato che a Taranto il “qualcosa” che non c’è più sono le vite di tante persone la cui unica “colpa” è essere nate tarantine.

La popolazione non ci sta però; ed è questa la speranza. Genitori che, come nei giorni scorsi, scendono in strada per le vie del centro e chiedono un futuro diverso per tanti bambini che ancora “sopravvivono”. Madri e padri che si augurano solo di non vedere più giovani vittime soccombere come i loro figli, nati per respirare aria e finiti ad ingoiare acciaio.

“TUTTO L’ACCIAIO DEL MONDO NON VALE LA VITA DI UN SOLO BAMBINO”; così recitava uno dei tanti cartelli del corteo organizzato lo scorso 1 novembre. In molti questo motto se lo sono dimenticato!

Una “parvenza” di giustizia si è palesata lo scorso 31 maggio, quando la corte d’Assise del capoluogo ionico ha condannato funzionari, dirigenti politici, tecnici, amministratori dell’ex Ilva. E’ stata riconosciuta, tramite l’inchiesta “Ambiente Svenduto”, la gestione “criminale” del gruppo Riva, proprietario della fabbrica tra il 1995 e il 2012.

Che qualcosa stia realmente cambiando?

Non illudiamoci troppo, visto che nelle zone limitrofe all’area a caldo c’è gente che continua a morire. Lo attestano i numeri; nel 2020 si sono registrati nelle aree più vicine all’impianto ben 60 decessi in più rispetto all’intero quadro cittadino.

Con la gestione di Arcelor-Mittal la musica, insomma, non è cambiata.

Tornando alla “sindrome” grave di tutta la storia, ovvero l’ipocrisia, nel 2019 Lucia Morselli (a.d. di Arcelor-Mittal) definì “criminali” le condizioni dell’area a caldo dell’ex Ilva. Non tardò ad arrivare il più classico dei controsensi quando la stessa sostenne che “tutti gli italiani dovrebbero essere orgogliosi dello stabilimento ex Ilva: il più bello d’Europa, il più moderno, il più potente. Un impianto che tutti ci invidiano. Credo sia un privilegio lavorare lì”.

Peccato che dal 2012 ad oggi siano ben nove gli operai morti “nell’impianto che tutti ci invidiano”; senza contare i numerosi incidenti, fortunatamente non mortali.

Qualcuno “sano di mente” non farà fatica a notare ancora sui balconi del quartiere Tamburi, o sulle lapidi del cimitero vicino, la polvere rosa che avvelena la città.

L’ha notato eccome il sindaco Rinaldo Melucci (forse uno dei pochi politici che rinsavisce) il quale ha denunciato la situazione, ancora fortemente critica, al Tar di Lecce che si è affrettato ad ordinare lo spegnimento immediato dell’area a caldo.

Ci siamo imbattuti in ben due istituzioni (il sindaco e il Tar) che sembrano nei fatti voler invertire la rotta. E’ singolare questa constatazione, non trovate?

E’ arrivato il momento di un unico fronte comune che metta davvero e finalmente la salute al primo posto.

Il che non significa affatto distruggere una fabbrica che da’ lavoro a molte persone, come estremizza a volte qualcuno. Ma è necessario creare una sinergia tra la città di Taranto, la sua gente e l’acciaieria.

Come? Non deve certo suggerirlo un modesto aspirante giornalista!

La “parolina magica” BONIFICA non è così sotterrata nel pensiero di chi è tenuto a decidere. Se si è convinti di scavare, la si trova piuttosto rapidamente.

Solo in questo modo si potrà garantire un futuro vero a Taranto. Solo così la popolazione potrà chiamare “orgoglio” ciò che ad oggi definisce “mostro”. Solo così il volto di Giorgio, ragazzo 15enne preso a modello dall’artista Jorit in nome di tutti quei bambini che un domani non ce l’avranno, potrà sorridere ovunque esso sia, così come i tanti sguardi innocenti di chi voleva semplicemente VIVERE.

Felice Marcantonio

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