Categories:

Sempre più frequente nel discorso pubblico è il riferimento alle transizioni, le trasformazioni necessarie a migliorare il nostro stile di vita, i modelli socio-economici, il modo di vivere sulla Terra. Per questo si parla di transizione ecologica, di transizione energetica e, unitamente, di transizione digitale; tre concetti che nascondono però non poche contraddizioni. Per la transizione digitale in particolare, è la stessa Commissione europea a spiegare i vantaggi delle soluzioni digitali, le quali mettendo «le persone al primo posto apriranno nuove opportunità per le imprese, incoraggeranno lo sviluppo di tecnologie affidabili, promuoveranno una società aperta e democratica, consentiranno un’economia dinamica e sostenibile, contribuiranno a combattere i cambiamenti climatici e a realizzare la transizione verde». Ma, come per le altre forme di transizione, non possiamo fare a meno di chiederci una cosa: sulle spalle di chi avverranno queste trasformazioni? Da dove arrivano le materie prime necessarie? A che servono queste terre rare delle quali si sente tanto parlare?

Alla base della piramide: le terre rare

Come spiega Openpolis, basta pensare alle terre rare, quei minerali tanto fondamentali per realizzare schermi e fotocamere di smartphone, turbine eoliche e batterie ricaricabili, per comprendere alcune contraddizioni. Data l’importanza cruciale di questi minerali la loro richiesta è destinata a crescere nei prossimi anni. Le terre rare provengono prevalentemente dall’Asia, e in particolare dalla Cina, ma nel Critical raw materials act proposto il 16 marzo del 2023, l’Unione europea «si è prefissata l’obiettivo di rendersi gradualmente indipendente dalle importazioni» di questi ed altri materiali critici, come «rame, litio, grafite, nickel, manganese e cobalto». Molti di questi elementi però sono talmente rari che i giacimenti si concentrano in pochi e definiti territori, territori nei quali l’estrazione di terre rare porta con sé disuguaglianze, sfruttamenti, rischi sanitari ed ecologici. Un’estrazione critica non solo a livello ambientale (è inquinante, energivora e produttrice di molti rifiuti) ma anche e soprattutto a livello etico e umano.

Il caso del coltan nella Repubblica Democratica del Congo

Se prendiamo l’esempio del coltan, contrazione di columbite-tantalite, nella Repubblica Democratica del Congo vediamo come a questo minerale si intreccino varie problematiche sociali, economiche e politiche. Dal coltan si estraggono due minerali, sempre fondamentali per i nostri smartphone. Estremamente prezioso per la transizione digitale, energetica ed ecologica in generale, purtroppo il coltam si presenta come molto concentrato in giacimenti nella Repubblica Democratica del Congo. Geopop spiega infatti che l’80% del coltan viene estratto lì, un paese «ricchissimo di risorse come ad esempio oro, cobalto, diamanti ma che, proprio per questo motivo, è sfruttato da più di un secolo, restando uno dei 10 Paesi più poveri del mondo». Data la ricchezza del minerale il contesto intorno al quale si sviluppano le miniere è estremamente pericoloso: è una zona vessata da vere e proprie lotte fra milizie armate che, approfittando della debolezza del governo nazionale, cercano di accaparrarsi il controllo delle miniere.

Ma questa non è l’unica criticità; dopo aver trovato un giacimento si procede a scavare gallerie e cunicoli nei quali vengono mandati uomini e bambini (per quelli più stretti) a rischiare la vita per recuperare il coltan. Dopo, sono le donne e i bambini a trasportare il materiale grezzo al più vicino punto di raccolta, dove verrà raffinato e venduto. Le condizioni di precarietà assoluta, di fatica e di sfruttamento fisico si accompagnano ad una paga inesistente o del tutto esigua: meno di due dollari al giorno, spiega Geopop.

Terre rare: come intervenire?

Purtroppo la pericolosità del lavorare nei giacimenti non si estingue così ma implica tutta un’altra serie di rischi che si ripropongono nella Repubblica Democratica del Congo anche nelle miniere di altri minerali, dove le condizioni di lavoro sono simili. Recentemente per esempio si è chiusa la raccolta firme di Amnesty International per fermare il lavoro minorile nelle miniere di cobalto del Congo (dove, secondo i dati Unicef 2014, erano 40.000 i bambini impiegati).

Come è avvenuto per l’industrializzazione quindi, c’è chi ci guadagna e chi paga, chi trae vantaggio e chi rischia la salute, il territorio, la vita stessa. Se un’autosufficienza europea in termini di terre rare al momento non è possibile, si dovrebbe almeno cercare di intervenire giuridicamente a livello internazionale o comunitario per tutelare uomini, donne e bambini dallo sfruttamento, dalla violenza e dal rischio sanitario e ambientale cui i commerci di terre rare (diretti e indiretti) da anni li stanno sottoponendo. Non solo; a livello individuale e nazionale contrastare l’obsolescenza programmata dei nostri dispositivi, smaltirli nel giusto modo per permettere il recupero dei materiali e promuovere l’economia circolare potrebbe essere un altro, sicuramente piccolo ma significativo, passo.

Sabia Braccia

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *