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“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”

(Hannah Arendt, La banalità del male)

Il meccanismo del lager, ovvero come uomini comuni diventano inconsapevolmente carnefici

Un pensiero, quello della Arendt, poco comune se pensiamo al fatto che buona parte dell’agire umano, spesso e volentieri, si basi su un gioco di estremi, pochi sono quelli che scelgono la “terza via”, quella che non assolve e non condanna e, se lo fa, non lo fa nè in preda al furore nè in preda a un serafico disinteresse.

E’ proprio dall’assunto dell’estremo che possiamo basare la riflessione sulle forme di totalitarismo e su come essi influenzino l’agire di uomini che diventano unità di produzione di una macchina diabolica, ma che essi non percepiscono come tale. Uomini senza scrupoli, banali, ma non malvagi in sè.

La Arendt scrisse la sua opera cardine contestualmente al processo a Gerusalemme, nel 1960, del gerarca nazista Adolf Eichmann, ovvero il responsabile dell’organizzazione del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei ai vari campi di concentramento, sfuggito al processo di Norimberga. Eichmann è stato, forse, il caso più conosciuto, ma nel mondo tanti uomini come lui hanno agito e hanno vissuto, impuniti, per il resto dei propri giorni.

Ogni 27 gennaio sentiamo parlare di Auschwitz e Treblinka, qualche volta ricordiamo che anche in Italia ne sono esistiti, per citarne uno: Risiera di San Sabba.

Anche qui, nel nostro meridione, ne sono esistiti.

Prigionia al Sud, il campo di prigionia di Bari

Quello di cui parlo oggi è il Transit Camp di Torre Tresca, a Bari.

Il sito fu costruito come campo di prigionia fascista nel maggio 1941, indicato come n. 075 del IX corpo d’Armata del Regio Esercito, situato ben lontano dall’abitato cittadino. Qui vi furono detenuti oltre 4mila soldati inglesi, con una quota consistente di ebrei e rom successivamente spediti nei lager.

Due prigionieri,  il capitano George Playne e il tenente Roy Roston Cooke, tentarono la fuga per ben due volte tuttavia, al secondo tentativo, il generale Nicola Bellomo, comandante del campo, ordinò il fuoco. Playne morì all’istante e Cooke rimase ferito. Il generale Bellomo, responsabile della morte del capitano Playne, verrà successivamente condannato a morte per fucilazione l’11 settembre del ’45, nonostante da più parti fosse stato acclamato come eroe di guerra per aver difeso con onore il porto di Bari dai tedeschi.

Dopo il male, la rinascita e l’oblio

La storia del campo avrebbe potuto concludersi nel settembre del ’43 quando ecco che, nella confusione di quei giorni funesti, il campo venne trasformato in un rifugio per tutti i profughi provenienti dai vari fronti di guerra, nonché dei cittadini di Bari vecchia rimasti senza casa dopo i bombardamenti e l’esplosione dei depositi di yprite nel porto, come un albero che rifiorisce dopo un’eruzione vulcanica. Fino agli anni Sessanta il campo, pressochè una fatiscente baraccopoli, continuò ad ospitare gli sfollati, salvo essere abbandonato nel 1967 in seguito alla costruzione del quartiere San Paolo.

Di questo luogo, importante per la memoria del capoluogo pugliese, non rimane oggi molto se non la bianca chiesetta detta di “San Vito”, fatta costruire nel 1960 da padre Ambrogio da Giovinazzo per dare al campo un luogo degno in cui celebrare, rilevante dal punto di vista storico ma non da quello architettonico, in quanto composta da un unico vano rettangolare a volta piana, senza decorazioni. La baraccopoli fu abbattuta nei decenni successivi per ampliare la tangenziale ma la chiesa è rimasta lì, unica testimone visibile dei tempi che furono, oggi recintata sia perchè proprietà privata sia per via degli atti di vandalismo a cui è andata spesso incontro, prova tangibile dell’oblio a cui siamo andati incontro.

Perchè infine, l’oblio non ci rende migliori di Eichmann

L’oblio rende la memoria umana è limitata e, nella corsa verso un futuro che reputiamo radioso, dimentichiamo gli errori commessi da coloro che hanno calpestato questa terra prima di noi, ritrovandoci, privi di esempi, a essere noi stessi l’incarnazione vivente degli estremi e dell’esecuzione materiale di meccanismi aberranti, azioni che reputiamo giuste nonchè automatiche, ma che, inesorabilmente, danneggiano il prossimo, incapaci di accorgercene. Del resto, chiunque potrebbe finire al banco degli imputati un giorno, nessuno può saperlo con certezza, l’importante è, in ogni caso, non lasciarsi trascinare da qualche estemporaneo profeta che promette la salvezza eterna da ogni male dell’umanità. Nel Novecento è toccato agli ebrei, ai dissidenti politici, agli italiani di Istria e Dalmazia e a tutti quelli che accusati e perseguitati, non sono stati in grado di poter testimoniare, nel Duemila a chi toccherà?

Di campi di concentramento, di prigionia, di sterminio o comunque vogliamo chiamarli, ne sono esistiti e ne esistono ancora, basti pensare a quelli costruiti in Cina per gli uiguri o a quelli che si rifiutano di fare da tirapiedi a Kim Jong-Un in Corea del Nord, e abbiamo ragione di credere che altri si nascondano sotto altro nome e altri ne verranno, perchè si sa, il capro espiatorio serve sempre, strumento utile a chi sfugge alle proprie responsabilità.

In conclusione, prima di urlare al “mai più” o di limitarci alla ricondivisione di foto scabrose attira-like nel giorno della memoria, iniziamo a chiederci se siamo davvero degni di farlo, se non ci stiamo burlando, in qualche modo, di chi ha perso la vita in quegli anni torturato, fucilato o disperso nel vento, interroghiamoci sulle azioni che compiamo quotidianamente verso gli altri perchè i prossimi Eichmann, Kim, Pol-Pot, Berija o Jinping potremmo essere noi: i mostri muoiono ma non le loro idee e i loro comportamenti, quelli sono più duri a morire, e sono quelli che vanno estirpati, perchè un mondo senza memoria o ricordi è un mondo che, prima o poi, soccomberà sotto al peso delle proprie menzogne.

Riflettiamo.

Dario Del Viscio

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