Illustrazione di Ilaria Longobardi (@dallamiap.arte)

“Ma perché non mangiava?”

“Ma perché mangiava così tanto?”

“E’ davvero ridicola a ridursi così, per un filo di grasso.”

“E’ davvero ridicola, chissà quanto pesa adesso”.

Trattare di DCA non è semplice. Quasi un mese fa è stata celebrata la Giornata Mondiale dei Disturbi del Comportamento Alimentare, ma l’importanza di quel fiocchetto lilla è spesso sottovalutata. Sono in pochi a capire che chi ha un DCA “non sta facendo i capricci”, in pochissimi che non è vero che “puoi uscirne solo con un po’ di forza di volontà”.  Solo negli ultimi tempi è stata notata una certa sensibilizzazione verso la tematica, sfatando miti e riportando testimonianze.

Il ruolo ambivalente dei social

I social media, ad oggi, rappresentano un’arma a doppio taglio. Ormai diventati uno specchio virtuale, riflettono immagini distorte, stili di vita assurdi, sembianze irreali. Il coinvolgimento mentale diviene inevitabile. Fortunatamente però, allo stesso modo, sono diventati sportello di confronto, luogo in cui potersi raccontare, senza misura e nel modo più personale ed informale possibile. E’ così che viene data voce al fenomeno, raccontando verità ed esperienze, le stesse diventate punto di riferimento per coloro che stanno affrontando questa battaglia. 

DCA: analisi del fenomeno

Durante la pandemia, lo stile di vita sedentario e la staticità mentale hanno dato il loro contributo, a tal punto che sono aumentati casi di obesità, ma anche anoressia, bulimia, bigoressia, picacismo, drunkoressia, ortoressia e molti altri.  Questi nomi potrebbero risultare sconosciuti poiché spesso la parola DCA è erroneamente associata solo a casi di anoressia, obesità e bulimia. 

Altri credono che “chi ha un disturbo del comportamento alimentare è sottopeso”, ma non sanno che il peso non determina necessariamente la presenza o assenza di DCA; secondo alcune statistiche, meno del 6% delle persona affette da anoressia nervosa è sottopeso da un punto di vista medico. 

L’età di un disturbo alimentare è compresa nella maggior parte dei casi tra i 12 e 25 anni, con un doppio picco di maggiore frequenza tra i 14 ed i 18 anni, ma di recente sono stati diagnosticati casi a incidenza più tardiva dopo i 20-30 anni, e casi ad insorgenza più precoce addirittura prima dei 12 anni.  Inoltre, secondo i dati dell’ISS risultano frequenti tra le donne, ma recentemente è aumentata anche la percentuale tra i maschi. Inoltre, nei maschi risulta essere più difficile riconoscere la diagnosi, in quanto radicata l’assurda concezione che l’uomo debba essere forte e sicuro di sé, quindi automaticamente categoria a parte.

Ma cosa si nasconde dietro ad un DCA? 

Una ricerca incessante dell’io più profondo.

La formazione dell’identità è un processo che occupa la vita intera di un individuo e di cui fulcro è rappresentato dalla fase adolescenziale, quale però non ne determina la fine.

L’adolescenza è il momento in cui avvengono cambiamenti repentini dovuti alle alterazioni ormonali, di conseguenza si crea uno stretto ed intricato legame tra identità e corpo. L’attenzione all’aspetto esteriore potrebbe diventare centrale e l’accettazione individuale spesso risulta essere irraggiungibile.  Lo stato di confusione identitaria, caratteristico di tale periodo ne è causa scatenante.

La visione negativa del proprio corpo è spesso il primo elemento nell’insorgenza di un DCA, perché mancando forme alternative di stimolo e autostima, il corpo diventa l’unico e solo aspetto per definirsi. Il peso sulla bilancia in realtà è una ricerca di individuazione. E’ inevitabile come un disturbo alimentare possa diventare uno strumento di controllo attivo del proprio io. 

Lo stato emozionale di chi soffre di un disturbo alimentare diviene altalenante. Si parla di “anedonia”, ovvero l’incapacità totale o parziale di provare soddisfazione, appagamento per le attività piacevoli. “Alessitimia”, la mancanza di parole per esprimere il proprio stato emotivo e ciò che si prova. Inoltre, “attenzione selettiva” poiché si alterno le percezioni, ponendo attenzioni a dettagli negativi, spesso anche singolari, al posto di avere una visione globale.  “Ragionamento emotivo“, pensando che qualcosa sia vero o reale perché lo si sente ed ignorando il contrario. Lettura del pensiero, cioè focalizzarsi sugli atteggiamenti altrui traendone giudizio errato. “Doverizzazione” estrema, sovrastimando quanto sia grave non realizzare le aspettative altrui. Ciò che emerge è una sintomatologia frequente in molte circostanze, che abbraccia molte sfere dello stato emozionale, non così distante dalla vita di ogni individuo. Tutt’altro di un capriccio.

E’ possibile guarire, il 60-70% delle persone ci riesce, nonostante il percorso di guarigione sia variabile da persona a persona ed influenzato da notevoli fattori (famiglia, percorso multidisciplinare, cure, fiducia nel percorso stesso). Si tratta di un lavoro analitico che va oltre la correzione dei sintomi patologici, bensì ripercorre tutta la storia del paziente. E’ bene ad oggi non sottovalutare le cause del problema, normalizzandone invece la divulgazione, per spingere verso una maggiore consapevolezza che lo stesso esiste e come ogni forma di disturbo, occorre curarlo. 

Cosa si diventa con un DCA? Tutto ciò che non si è

Lo descrive Ligabue in una delle sue canzoni, come un posto spento, in cui fa freddo ed in cui nessuno vi entra mai. Lo stesso che, probabilmente trattiene la Coraline dei Maneskin, quando vorrebbe partire o sparire.

Claudia Coccia

Fonti:

Journal of the American Academy of child and adolescent psychiatry

giorgiabellini_dca, animenta_dca

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