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“E’ tempo di lasciare questo ciclo di vita”

Battiato, ma che lingua parli!?

Ci facevi paura, ma eri un meridionale come noi. Eri lontano ormai, forse già da parecchio, prima con la distanza fisica, nell’eremo di Milo, poi con la mente, quando non sei più salito su un palco, e poi quando, alla fine, hai deciso di compiere quello per cui ti preparavi da una vita: andare via, lontano, forse nel mondo e nella dimensione che hai provato a toccare con le dita e con la voce, forse sei tornato sul pianeta da cui venivi; in effetti ci siamo sempre chiesti se tu non fossi un alieno, una chimera o una qualunque divinità scesa qui per illuminare il nostro cammino con un incantesimo.

Caro Franco, abbiamo capito solo adesso che tu eri fatto esattamente come noi, molti di noi non ti hanno mai capito, anche affollando i tuoi concerti e cantando le tue canzoni, molti di noi non comprendevano dove volessi arrivare, quelli di noi che avevano velleità intellettuali hanno usato diversi tomi di filologia per sviscerare ciò che scrivevi. E non solo eri fatto come noi, appartenevi alla nostra gente: è vero, sei andato via da ragazzo, pieno di sogni e illusioni, ma non hai mai dimenticato quel piccolo paese in provincia di Catania in cui sei nato, un luogo che non si chiamava neanche più come ricordavi, non hai mai dimenticato la terra nera e l’acqua cristallina, i richiami del Vicino Oriente e il perenne pennacchio di fumo sull’Etna, non hai mai dimenticato la Sicilia. Non hai mai dimenticato tua madre Grazia e i tuoi familiari che erano rimasti giù, e forse pensavi a loro, alle tue origini, quando ci hai presentato in musica la Genesi e l’epopea di Gilgamesh.

Sai, potremmo dirti che hai scelto il momento sbagliato, potevi aspettare ancora un po’ per andartene, non siamo pronti, non riusciamo ad elevarci in alto insieme agli uccelli di cui tanto parlavi, con le loro traiettorie impercettibili e i codici di geometria esistenziale, non riusciamo ad salire sulla linea verticale che si spinge verso lo Spirito, ed anzi ci facciamo trascinare verso il basso, sulla linea orizzontale che ci spinge verso la Materia, siamo prigionieri nelle nostre case e di noi stessi, siamo rabbiosi e non abbiamo pace né prima né dopo la morte, irosi e scellerati come Benvenuto Cellini, con un animale che vive dentro di noi e si prende tutto, anche il caffé. Se, però, era esattamente questo quello che volevi, non ce la sentiamo di biasimarti, evidentemente sapevi che non potevi trattenerti oltre. Sarà “una dura notte di un giorno” questa qui , per citare i Beatles che ascoltavi dal juke box quando eri solo un ventenne e che tanto ti piacevano, forse ci scenderà una lacrima e forse no, forse ci sentiremo cagionevoli e senza scopo, e forse non potremo trovare conforto se non nelle tue parole. Sono strani giorni, questi qui, e ci sale il forte sospetto che tu abbia ponderato bene quando cessare di osservare, forse anche per te era troppo tutto questo dolore, tutto questo rancore, forse non sopportavi nemmeno tu la cattiveria gratuita, la gogna e la prostituzione morale che ci affliggono. Ma c’è un assioma importante che non possiamo dimenticare, quell’assioma che, per citare Eraclito, fa di noi esseri cangianti e limitati su questa terra: siamo qui solo “di passaggio”.

Noi ti vedevamo come un mito, eppure eri vicino ai nostri problemi, e lo eri soprattutto quando non esitasti ad usare il tuo prestigio per violare l’embargo insensato contro il popolo iracheno, suonando al Teatro Nazionale di Baghdad nel dicembre del 1992, rompendo il muro della guerra e del silenzio contro un popolo, permettendo a musicisti privi di spartiti ed ance di suonare in diretta mondiale. Se vogliamo esprimerci meglio, più che un dio eri il deus ex machina inventato dalla mente di Euripide, portando la nostra attenzione verso un luogo così lontano, come un attore del V secolo a.C. avrebbe fatto nei teatri di Atene, o, perchè no, sul palcoscenico del teatro greco di Siracusa. E questo sai cosa vuol dire, Franco? Che ci hai mostrato quanto possiamo essere infimi, meschini, quanto siamo bravi a puntare il dito contro gli altri e a non prenderci mai responsabilità o solo sentendoci in colpa per questioni per cui non dovremmo, che ci facciamo abbindolare facilmente da ciò che vediamo attraverso il teleschermo, puntando il dito, come facemmo inizialmente contro l’Iraq, poi contro la Libia, poi contro la Siria e, per finire, contro qualunque disgraziato morto in mare o nelle strade delle nostre città. Eh sì, spesso siamo anche noi subdoli e mancini, Paganini lo sapeva bene.

Tutte queste cose tu le hai dette con la sola forza della parola, con la calma che regola il cosmo, senza alzare la voce, senza avere schiuma sulla bocca o sangue agli occhi, imperturbabile e sicuro di ciò che stavi dicendo, anche se ciò ti fosse costato perdere un posto da assessore regionale. Se solo avessimo imparato da te il mondo sarebbe un posto migliore, ma non siamo come te, possiamo solo provarci, il nostro carattere umano talvolta ce lo impedisce, qualche volta non sopportiamo neppure la felicità, che sia la nostra o quella altrui.

Ora, però, dobbiamo congedarci, caro Franco, questa è la tua fermata. Quando ti risveglierai nel tuo corpo attuale, dopo questo sonno, noi non ci saremo, e il silenzio come un sudario calerà, resteranno i nomi e cambieranno le facce, sarà tutto molto simile a quel posto in Marocco che si chiama Tozeur ma no, non potremo dimenticarci di te. Che tu sia tra le sabbie colorate di un deserto, tra le rive trasparenti dei ruscelli o in cortili di primavera, stai sicuro che un giorno ci rivedremo e ci insegnerai a trovare l’alba dentro l’imbrunire. Torneremo ancora, Franco. Grazie per averci accompagnati fin qui, ora vai e vivi questa nuova vita, il resto lo porteremo con noi.

Porta i nostri saluti a Manlio, a Giusto e a Milva e, quando la vedi, abbraccia per noi anche Giuni.

Ciao Maestro, speriamo solo, la prossima volta, di poter finalmente prendere questo famoso thè al Caffè De La Paix.

Con affetto e dedizione

Dario Del Viscio

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