Qual è la scintilla che fa accendere il conflitto?

Tutto nasce nel 2019, quando la società civile stanca delle conseguenze sorte dalla forte instabilità politica si movimenta per ottenere la rimozione dell’incarico di Omar al-Bashir, ex presidente e dittatore del Sudan oltre ad essere capo del Partito del Congresso Nazionale.

Ha così termine uno dei regimi più longevi dell’Africa che conta trent’anni di mandato.

A seguito della caduta del regime dittatoriale, il Sudan promette la direzione a un’ideologia democratica. Ma con la salita al potere del nuovo premier Abdollah Hamdok, le tensioni interne, già presenti, tra i gruppi civili e militari non si ammorbidiscono.

Il progetto di riforma

Hamdok promosse il progetto di riforma dell’esercito per escludere chi apparteneva ancora al precedente regime e ostacolare le azioni pianificate dal RSF.

Le RSF, sigla di Rapid Support Forces, sono forze paramilitari sudanesi appartenenti all’ex regime. Derivano dai Janjawid, i miliziani di etnia araba fedeli al regime di Omar al-Bashir, accusati di genocidio durante la guerra in Darfur (regione occidentale del Sudan).

Il golpe del 2021

È il 25 ottobre quando i militari del RSF con a capo il generale al-Burhan interrompono la transizione democratica in corso. I militari scesero in piazza sparando contro i manifestanti civili davanti al quartier generale dell’esercito. Il bilancio fu di 7 morti e più di 140 feriti.

Il generale riunì le sue forze con al-Bashir per ribaltare il governo: da questo momento in poi è guidato dalla giunta militare nominata Consiglio Sovrano.

Ma il tempo dell’alleanza è stato brevissimo: una delle due fazioni vuole ottenere le redini della nazione.

Nel 2022 il generale al-Burhan, a seguito di forti pressioni internazionali, ha ceduto il potere in cambio di aiuti economici. L’accordo firmato prevedeva che le forze del RFS si sciogliessero e si integrassero all’esercito regolare, ma temendo la perdita del controllo, tale punto non venne rispettato.

15 aprile 2023

È già passata più di una settimana dal 15 aprile, giorno in cui sono iniziati i combattimenti tra le due fazioni militari che si contendono il controllo del Paese.

Le due parti, l’esercito regolare guidato dal generale e capo del Consiglio sovrano del Sudan Abdel al-Burhan da un lato e l’esercito del comandante delle RSF, dal 2019, Mohamed Hamdan Dagalo, dall’altro.

Gli scontri stanno avvenendo principalmente nella capitale, Khartum, ma si estendono anche lungo le città limitrofe.

Ad oggi le fazioni sostengono di avere il controllo dell’aeroporto e del palazzo presidenziale, dimostrando quindi di avere il timone per la gestione di spostamenti di persone e non in entrata ed uscita dal Paese e di presiedere presso gli uffici governativi. Ma gli aggiornamenti confermano che rimane difficile stabilire chi abbia il coltello dalla parte del manico.

Non è neppure semplice intendere chi abbia lanciato la prima freccia: entrambi si puntano il dito a vicenda. L’esercito sudanese dichiara che i paramilitari avrebbero attaccato le sue basi militari presso la capitale ma le milizie di Degalo controbattono denunciando che i loro campi siano stati colpiti dall’esercito regolare.

Le attività aeree sono state momentaneamente arrestate a causa degli intensi scontri.

I numerosi problemi derivanti dal conflitto

Non si esclude assolutamente la possibilità che i combattenti interni militari tramutino la guerra a livello civile.

Inoltre bisogna tenere conto della posizione strategica del Sudan. Trovandosi a sud della Libia, il territorio sudanese è fondamentale per l’attraversamento dei flussi migratori di persone che dall’Africa sub sahariana arrivano in Libia per imbarcarsi nel Mediterraneo. Gli abitanti dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Uganda e Kenya sono bloccati presso i propri confini, impossibilitati di transitare il Sudan per raggiungere la loro meta.

Le tregue militari

Il 19 aprile è stata richiesta una prima tregua della durata di tre ore per permettere l’accesso degli aiuti umanitari. Tale richiesta non è stata rispettata e questo ha dato luogo a scontri più intensi. Infatti i corrispondenti (come Al Jazeera, presso la capitale) confermano l’utilizzo di artiglieria pesante nella sezione meridionale e settentrionale di Khartum.

La seconda tregua è stata annunciata dalla sera del 21 aprile, per la durata di tre giorni per facilitare l’ingresso dei servizi umanitari e per concedere ai cittadini di celebrare la fine del Ramadan (Eid El Fitrm).

I conflitti non sembrano interrotti ma la cittadinanza inizia il suo esodo evacuando dalla capitale.

Ad oggi si contano 600 vittime civili ed oltre 3.500 feriti.

L’assistenza sanitaria, che presentava molte criticità prima dell’inizio del conflitto, si trova con le spalle al muro. Sono solo 5 gli ospedale ad oggi funzionanti su un totale di 59.

Come qualsiasi conflitto che presenta la necessità di stabilire il potere, l’unica conseguenza ricade e ricaderà sempre su chi non ha la possibilità di gestire il conflitto: il popolo.

Il Sudan, Paese che vive di sussistenza e dalle povere risorse commerciali, si trova con l’unica possibilità di chiedere aiuto e scappare dalle loro terre.

Elena Zullo

One response

  1. Interessante Elena…queste guerre intestine lasciano il tempo che trovano per quel che riguarda gli equilibri mondiali…i potenti della terra volgono il loro sguardo altrove dove ci siano interessi per le proprie tasche…brava comunque…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *