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Cè un fenomeno che sta diventando sempre più capillare sul territorio nazionale e  allarma ormai da qualche anno l’opinione pubblica e le istituzioni italiane. Stiamo parlando dell’emergenza criminalità, soprattutto nella fascia giovanile, come nel caso delle Baby Gang.

Con il termine Baby Gang ci riferiamo a un fenomeno di microcriminalità che riguarda ragazzi minorenni o neo maggiorenni, che in gruppo compiono piccoli reati, dai furti alle rapine, dalle aggressioni agli atti vandalici. Le cause sottese comprendono un desiderio di divertimento e di evasione, ma rientrano anche noia, esibizionismo o l’imitazione di personaggi famosi.

L’influenza dei social network ha condotto a un vero e proprio boom di questo fenomeno,  permettendo a molti di essi di raggiungere notorietà e provocando a loro volta nei coetanei una voglia di emulazione. Al contempo l’esposizione dei mass media così intrusiva dipinge gli adolescenti come unici portatori di caos morale che riflette più l’allarmismo degli adulti sullo stile di vita degli adolescenti. Nell’epoca moderna infatti, dove l’adulto controlla anche il tempo libero del figlio che viene relegato in strutture iper protette, fatte più a misura di adulti che di bambini, manca quella componente esplorativa che veniva offerta giocando  in strada e in campagna e che permetteva di affrontare meglio quelle sfide che ora vengono ricercate in maniera pericolosa.                 

Cosa spinge i ragazzi a compiere tali atteggiamenti?

Tra le tante analisi di questo fenomeno, particolarmente interessante è quella offertaci da Albert Bandura, famoso psicologo canadese, attraverso la sua teoria del disimpegno morale. Da quanto emerge in varie interviste a soggetti criminali si nota il disprezzo di quest’ultimi verso la vittima, a cui si appellano con etichette eufemistiche e una deumanizzazione per alleggerire la portata degli eventi. Questo fa sì che si crei meno empatia, metodo d’altronde utilizzato nella seconda guerra mondiale quando gli ebrei venivano deportati nelle camere a gas senza che il senso di colpa, dato da un’azione in prima linea con le proprie mani da parte dei nazisti, potesse prendere il sopravvento sul crimine commesso.

Dall’altra parte si mette l’accento su un’altra componente peculiare: il gruppo,che, come già enunciato da Freud in “Psicologia delle masse e analisi dell’io”, agisce all’unisono come un branco in cui la coscienza morale si dispiega e si attutisce a favore degli istinti più tribali. Il gruppo, quindi, funge da protezione e identificazione di una famiglia ritenuta l’unica istituzione a cui appellarsi e difendere, e questo lo si nota con l’appellativo di “fratello” agli amici che, “in virtù dello stesso sangue”, non possono tradirti.

Come si può far fronte, quindi, in chiave pedagogica, alle condotte devianti?

Il fenomeno delle baby gang solleva, quindi, più di una questione e ci fa mettere in discussione il valore della rieducazione. In merito, molti pedagogisti del Novecento si sono instradati per dar voce a un forte dissenso sulle pratiche educative tradizionali che hanno prodotto scarsi risultati. Non possiamo non citare quindi il pedagogista Stefano Maltese il quale, attraverso l’opera “Il lavoro educativo nei contesti della devianza giovanile” si imbatte nei falsi miti della pedagogia.

Se ad esempio un insegnante o la direzione richiamano uno studente che viene punito attraverso l’espulsione, come possiamo aspettarci che il ragazzo abbia integrato la lezione se viene allontanato da quella stessa istituzione che si prefigge il compito di insegnargli norme e le leggi?

Se in famiglia decidiamo, attraverso le percosse, di punire un torto commesso, come dimostriamo che la violenza sia da denigrare se ne siamo gli artefici? La stessa punizione fa in modo inoltre che l’errore debba essere cancellato e non rielaborato, condito da etichette denigratorie che fanno sì che si riproducano delle aspettative negative che non permettano al soggetto l’idea di essere capace di rimediare al passato.

L’ideale sarebbe allora rieducare senza negare la storia passata ma ricomporla secondo un continuum che consenta, attraverso la collaborazione con i pari, di ispirare e motivare, laddove un adulto possa risultare troppo distaccato nel percorso terapeutico, in quanto non coinvolto in primis in situazioni di devianza.

Il sistema rieducativo attuale manca però ancora di quegli strumenti innovativi e incentrati sul soggetto. In Italia persiste un sistema di procedura penale minorile nella quale si denigra il passato e l’errore commesso, attraverso pene ridotte e il trasferimento in istituti penitenziari. Non ci meraviglia, quindi, che il sistema giudiziario minorile abbia risultati esigui.

Ma bisogna considerare anche l’altro lato della medaglia. I giovani, infatti, sono caratterizzati da un senso di sfrontatezza e di onnipotenza di fronte alla legge. Altre volte, invece, le autorità sono contrastate dai familiari, con la quale bisogna invece collaborare, ricordando che la famiglia, quale nucleo educativo del ragazzo, può deviarlo con atteggiamenti nocivi mai estirpati.

Un punto di svolta risiederebbe nel Metodo Integra applicato nella comunità “Casa Papa Francesco” a Pozzuoli, nella quale si mira a centralizzare il soggetto con i suoi bisogni senza essere condizionati da stereotipi di condotte criminali e venendo affiancati da una equipe multidimensionale che ricorda che i veri educatori non sono missionari sprovveduti, né scienziati intrisi di tecnicismi e nemmeno animatori di progetti educativi ma loro compito è integrare tutte le componenti in maniera olistica, lavorando in collaborazione con enti del territorio per una favorevole integrazione del soggetto dal punto di vista lavorativo, familiare e istituzionale.

Carmen Allocca

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