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Nel ricordo di Vito, Antonio e Rocco: tre ragazzi “normali”

Stando alla definizione letterale, la parola “anniversario” rappresenta un qualcosa che ricorre ogni anno in un determinato giorno. A ben vedere, poi, “ricorrenza” è quasi una specifica del termine sopra citato, più che un suo sinonimo, giacché designa ciò che si va a ripetere periodicamente nel tempo, quasi che quell’avvenimento sia la “normalità”. Chiaramente bisogna discernere, in una fase successiva, dal contesto generale al particolare; nel caso di un compleanno, ad esempio, è legittimo che l’anniversario-ricorrenza sia un qualcosa di “normale”. Al contrario, riferendoci ad eventi decisamente meno lieti, questo aspetto si fa più spinoso e “normalità”, in questi casi, fa sempre più rima con “passività”.

Un caso emblematico ricorre proprio oggi, 23 maggio 2022. Alle 17.57 di 30 anni fa, l’autostrada A29 direzione Palermo, venne frantumata all’altezza dello svincolo di Capaci provocando la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Il motivo del tragico avvenimento lo conosciamo tutti, anche se, a distanza di così tanti anni, per qualcuno ammettere tutte le responsabilità è difficile, forse perché proprio in quel momento puntualmente si secca la lingua, oppure, come è più probabile, perché dire la verità è una qualità di pochi “eletti”. Per chi non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare risulterà facile, alla luce dell’analisi dei fatti, pronunciarsi in questi termini: Giovanni Falcone era una personalità scomoda, tanto per la mafia quanto per i vertici dello Stato ed andava eliminato. Eccola la verità nuda e cruda.

Visto che, come detto, la vicenda, con tanto di responsabilità annesse, è materia ormai conosciuta, è bene concentrarsi più a fondo sul binomio anniversario-ricorrenza. Vero è che anche gli avvenimenti tragici meritano di essere ricordati, ma, a differenza dei momenti felici che suppongono una maggiore leggerezza e quindi una riflessione assente o quasi, i primi impongono di fermarsi a pensare su ciò che è successo in quel determinato giorno e, possibilmente, fare il possibile, ognuno a suo modo e secondo le proprie competenze, affinché l’accaduto non si ripeta.
Premettendo che, subito dopo l’uccisione di Falcone e successivamente del collega Paolo Borsellino, la lotta alle mafie ha fatto decisi passi in avanti, anche grazie ad una maggiore sensibilizzazione sul tema, è ancora radicato, magari involontariamente, il pensiero che la strage di Capaci rientri nella “normalità” della storia di questo Paese. Ciò è evidente ogni 23 maggio nel momento in cui assistiamo a una massa di persone che si recano nei luoghi commemorativi distribuiti un po’ in tutta Italia; escludendo i diretti interessati (parenti o amici delle vittime), negli occhi di molti traspare quasi un’imposizione, un obbligo tutt’altro che personale che li spinge ad un gesto di per sé giusto e nobile, purché appunto sia vissuto con anima e corpo. Nell’aria, invece, durante le celebrazioni di ricorrenze simili, si respira una sorta di apatia o di finto coinvolgimento che non riguarda le scolaresche composte da bambini troppo piccoli ancora per avere cognizione di ciò che è accaduto quel 23 maggio 1992, bensì gli adulti, magari anche qualche rappresentante di governo, puntualmente dedito a recitare frasi di rito senza accompagnare dentro di sé a quelle parole una doverosa riflessione. Chiaramente, non tutti si comportano in questo modo; basti pensare al trasporto che ogni anno spinge il presidente della Repubblica Mattarella a ricordare quanto accaduto e soprattutto a stimolare le coscienze per far sì che non si ripetano più atti brutali di questa portata.

E poi ci sono gli occhi puri e sinceri dei ragazzi, i quali sembrano mossi da un fuoco che unisce rabbia e riscatto e che rappresentano davvero la speranza di un domani migliore che sia colorato di concretezza e non di retorica. Giovani più o meno dell’età dei tre agenti che quel 23 maggio persero la vita con la convinzione che la paura fosse qualcosa di “normale” e che bisognava sempre preferirla alla vigliaccheria. Questo concetto fu espresso in un’intervista radiofonica da Antonio Montinaro, in risposta al giornalista che gli faceva notare il “peso” del suo lavoro di scorta del giudice Falcone. L’agente in questione morì all’età di 29 anni. Era nato a Calimera, un piccolo borgo della provincia di Lecce. Quel giorno si trovava in auto accanto al collega Vito Schifani. Montinaro lasciò la moglie Tina, oggi promotrice dell’associazione vittime di mafie, e due figli.
Rocco Dicillo, invece, viaggiava sul sedile posteriore quel pomeriggio. Aveva 30 anni, nativo di Triggiano, nel barese. Era in procinto di costruirsi una famiglia con la fidanzata Alba, la stessa che descrive il compagno come un uomo di giustizia che la invitava a “cercare sempre le risposte nella Costituzione”, convinto che “se la civiltà non fosse fondata sul diritto non si andrebbe da nessuna parte”. Dicillo si sarebbe dovuto sposare proprio nel 1992, caso della vita, il 20 luglio, ovvero il giorno dopo la strage di Via D’Amelio, quella che privò l’Italia onesta anche di Paolo Borsellino.
E poi c’era lui, Vito Schifani, 27 anni, palermitano. Era al volante della Fiat Croma marrone, l’auto che saltò in aria per prima. Anche lui aveva messo su famiglia con una moglie e un figlio; quest’ultimo, oggi, seguendo i dettami del padre, è capitano della Guardia di Finanza. La vedova di Schifani, Rosaria Costa fu protagonista dei giorni successivi al funesto episodio. Ѐ noto che, quando nella camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia di Palermo le si avvicinò l’allora presidente del Senato Spadolini, la donna gli disse di voler sentire una sola parola: vendetta. In caso contrario, non avrebbe accettato nient’altro. Ai funerali di Stato, poi, fu proprio la Costa a prendere la parola durante il rito religioso pronunciando frasi indelebili piene di fede cristiana, ma anche di legittimo dolore e rassegnazione. Vale davvero la pena riportare quasi integralmente quel discorso, perché in nessun altro modo si potrebbe restituire il senso di parole così forti.


«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato…, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…
Ma loro non cambiano… […] …loro non vogliono cambiare…
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore…».


Commentare in questi casi è più che mai inutile, dato che basta il virgolettato per riflettere a fondo. Oggi, 23 maggio 2022, abbiamo voluto seguire l’insegnamento della sorella di Dicillo, Michela, la quale giustamente ha fatto notare che è doveroso ricordare tutti, dal momento che “dietro ogni vittima c’è una storia, una famiglia, una vita spezzata. Una tragedia che può toccare tutti”.
In queste affermazioni troviamo il senso ad una domanda frequente in questi casi: “Ma chi gliel’ha fatto fare?”, si dice con un tono quasi di compassione. Vito, Antonio e Rocco erano ragazzi come lo siamo noi oggi. Fuori dal comune? No, semplicemente “normali”. Giovani che hanno operato nel presente immaginando il futuro, lo stesso che loro non hanno potuto vivere. Tuttavia, hanno lasciato ai posteri una pesante eredità, la stessa che ogni cittadino che naviga tra i 20 e i 30 anni ha il dovere di raccogliere, anche e soprattutto se ha paura, esattamente come quel giovane militare che ripeté più volte un iconico “minchia” davanti al proprio superiore constatando l’orrore di Capaci.

Felice Marcantonio

Illustrazione – su base di foto – di Ilaria Longobardi (@dallamiap.arte)
COVER “Signor Tenente”: voce di Isabella Alfano, base musicale di Dario Fiscarelli (@Il Solitario)

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