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Con il referendum del 1946 gli italiani chiusero definitivamente la pagina della monarchia per aprire la strada alla Repubblica. Ma fu un voto che vide il Paese spaccarsi in due: il Sud a privilegiare il regno e il Nord ad ambire al regime popolare. Un dibattito che vede interessati ancora oggi storici, sociologi ed economisti, spesso senza analizzare e capirne i motivi.

Il referendum

1946: anno della rinascita. Il 2 e il 3 giugno si decise con il referendum istituzionale di passare dalla forma della monarchia, dominante fino ad allora, alla forma della Repubblica. Non solo. Si votarono anche i deputati che avrebbero preso parte alla futura Assemblea costituente.

Anno quello di un’Italia uscita distrutta dalla parentesi buia della Seconda Guerra Mondiale e della dittatura fascista. In una realtà come quella di oggi dove l’astensionismo cresce a dismisura, è bene ricordare di come gli italiani riconquistarono il diritto di voto. Inoltre, fu la prima partecipazione delle donne ai seggi, in ritardo rispetto ad altre realtà. L’occasione è storica, tale che si racconta di come molti si recano ai seggi “vestiti a festa”.

La Festa della Repubblica è ormai una tradizione, con annesse celebrazioni, divenuta festa nazionale dal secondo governo Amato con la legge 336 del 20 novembre 2000.

Uno sguardo al coro meridionale

Il voto repubblicano si è diffuso però nel Paese in maniera disomogenea. Si conta nell’intero Mezzogiorno circa l’80% dei suffragi andati alla monarchia e il 20% all’opzione repubblicana. Un suffragio inaspettato se si considera che proprio il Sud avrebbe dovuto essere il più motivato ad abolire un regno, quello Sabaudo, che dopo l’Unità d’Italia aveva ridotto alla fame tutto quello che un tempo fu il maestoso regno Borbonico delle Due Sicilie.

Uno dei motivi che molti assurgono è il bagaglio storico del Sud, dove le differenze culturali, di alfabetizzazione, sociali, economiche si presentavano evidenti rispetto al Centro-Nord. È prevalso un forte spirito conservatore, si legge nei libri di storia, dove la continuità dell’istituzione monarchica sembrò per tantissimi una soluzione più rassicurante: “chini lassa la via vecchja pe la nova, sa’ chiddu ca lassa ma nun sa’ chiddu ca trova” recita l’antico proverbio.

Ma vi è un’altra verità, quella delle manipolazioni politiche dell’allora ministro dell’Interno, il piemontese repubblicano Giuseppe Romita. Le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista furono così orchestrate in modo tale da mettere in secondo piano l’espressione degli elettori del Sud Italia. Venne fatto votare immediatamente il Nord filo-repubblicano alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente pro-repubblica, delle elezioni amministrative nel Settentrione.

Il Mezzogiorno si disse monarchico ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione.

Per alcuni –scrive il giornalista e scrittore Angelo Forgione – più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia”.

A vincere, come sappiamo, è il sistema politico tutt’ora vigente, per tutti e con tutti. E tutti hanno finito per accettarlo, assieme a quella che oggi è la Costituzione più democratica del mondo. Una Costituzione che non va solo difesa, ma applicata, oggi come non mai.

Chiara Vitone

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